Sabatini: «Nebbia, pubblico e pallone, è questa la mia immagine del calcio»
Al Venerdì di Repubblica: «Tendo a essere una persona libera, anche se schiava di molti vizi. Mi sento colpevole di tutto, anche del mancato scudetto alla Roma».

Mv Bologna 15/12/2019 - campionato di calcio serie A / Bologna-Atalanta / foto Massimiliano Vitez/Image Sport nella foto: Walter Sabatini
Emanuela Audisio intervista Walter Sabatini per il Venerdì di Repubblica. Un’intervista intima, in cui l’ex direttore sportivo di – tra le altre – Salernitana e Roma, svela i tratti più complessi del suo carattere e i motivi per cui, spesso, è andato via dai club sbattendo la porta. Sabatini ha 67 anni, ha scritto il suo primo libro: Il mio calcio furioso e solitario, edito da Piemme. Racconta che lo ha scritto per distrarsi in un momento in cui era rimasto senza lavoro.
«L’ho scritto al cellulare, inviavo le frasi via WhatsApp a un’amica, l’avvocata Angelica Alessi, che le trascriveva al
computer e mi rimandava il file. Mi è servito perché per la prima volta a luglio e ad agosto, mesi non di vacanza
per chi fa il mio mestiere, mi sono trovato senza calcio di cui occuparmi. Avevo bisogno di ritrovarmi, ero in crisi d’identità, scrivere mi ha fatto bene, essere sincero anche, sono andato a recuperare cose sgradevoli e difficili da
raccontare».
Nel libro, Sabatini scrive: non volevo essere quello che gli altri hanno raccontato.
«Vero. Niente caricatura di me stesso: il fumatore e il lettore incallito, l’uomo dei vizi, dei tre pacchetti di sigarette e dei 15 caffè al giorno, delle citazioni letterarie, lo sciamano del calcio, quello che non riesce a separare la vita dalla palla che rotola, che passa le notti al telefono, che non tralascia di aspirare niente. Vi prego, non voglio essere una macchietta, anche se ho fatto di tutto per suicidarmi, senza successo. Il mio corpo è ferito perché non gli ho risparmiato niente, l’ho usato, ne ho abusato, ho vissuto tutto con lui: sesso, scontri, rabbie, viaggi. Ma ho sopravvalutato le mie energie pensando di poter far tutto, anche con stress e polmonite, e anche dopo l’asportazione di un tumore. Sì, in terapia intensiva avevo l’iPad per vedere la partita della Roma, anche se intravedevo solo ombre. Cuore e batticuore. Sono stato due volte in coma, con la dottoressa che continuava a ripetere: lo perdiamo. Io invece volevo rischiare di vivere e puntare sulla mia bassa (per gli altri) percentuale di riuscita. Azzardare mi piace, ma le mie coronarie dimostrano che non sono un duro, tendo a fidarmi del mio intuito, penso di saper decifrare in anticipo le situazioni e gli esseri umani».
Già da ragazzo è stato inquieto e scalmanato.
«Mia madre spazientita mi diceva: ma perché non muori, così soffro una volta sola?».
Sabatini parla di suo padre, che lavorava alla Perugina.
«Aveva avuto un incidente stradale, forse trascurato, che l’aveva cambiato, aveva spesso attacchi, crisi e depressioni. Da piccolo mi lasciava guidare la sua Seicento in cortile, un giorno aprii il cassetto del cruscotto e trovai una sua lettera indirizzata a mia madre dove si diceva che in caso fosse morto non doveva accettare aiuto da parte di nessuno. Ci rimasi male, voleva suicidarsi? Non ne parlai mai con lui, ma per me fu terribile. Ero un ragazzo e la morte era già atterrata nella mia esistenza».
Sulla sua vita:
«Mi sento colpevole di tutto, di ogni sconfitta, di qualsiasi cosa capiti attorno a me, anche delle macerie, di non aver portato lo scudetto alla Roma, di aver tolto un sogno alla gente, quella cosa che non successe mi pesa e mi marchia. Abbiate un po’ di pazienza, rispondo».
Sabatini ha spesso lasciato i suoi incarichi. Racconta qualcuno dei suoi addii.
«Nel libro parlo di esagerate interruzioni consensuali. Non sopporto chi insulta i miei uomini, anzi non lo permetto. Saputo, il presidente del Bologna, ha urlato: questa è una squadra di merda. Per messaggio gli scrivo che il responsabile sono io e che ci sta che me ne vada. Lui il giorno dopo concorda. Alla Sampdoria ho fatto quasi a botte con il presidente Ferrero perché inveiva contro l’allenatore Giampaolo dopo una brutta partita persa a Bologna. A Perugia ho litigato con Alessandro Gaucci perché senza avvisarmi aveva mandato via un collaboratore. In otto mesi mi sono escluso da due grandi società, Roma e Inter. Tendo a essere una persona libera, anche se schiava di molti vizi; quando Adriano Galliani, molto simpatico, mi cercò per il Milan, non se ne fece nulla perché lui mi avvisò che Berlusconi era il primo direttore sportivo del Milan, lui Galliani, il secondo, io Sabatini sarei stato il terzo. Grazie, risposi, resto alla Roma. Sempre più i presidenti vogliono fare il loro calcio, ma io sono un Ds vero, non si tratta di avere idee vecchie o nuove, ma di giuste priorità. Gli archivi digitali, gli algoritmi, gli osservatori, gli psicologi, sono tutte figure utili, ma se sono a servizio di qualcuno e cioè dell’allenatore. Guardate il Napoli e le sue bellissime sincronie di gioco, frutto dell’intenso lavoro di Luciano Spalletti e del suo match analyst, Simone Beccaccioli. Detto questo, se dico che la Roma di Mourinho non ha un gioco, mi scrivono: ma quando muori? Abbiate un po’ di pazienza, rispondo».
Aspetta ancora una chiamata? Sabatini:
«Sì, sono fermo da un anno, ho crisi di astinenza, ma sono anche curioso di questo libro. Voglio sia un successo, non posso sopportare un fallimento. Avevo scelto un altro titolo: Ero nebbia, pubblico e pallone. È la mia immagine del calcio».