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L’esilarante corsa a trovare la spiegazione del successo del Napoli

Dai terzini che entrano dentro (visione vagamente pornografica) al software in grado di prevedere il futuro. Software che nemmeno Zuckerberg aveva ma noi sì

L’esilarante corsa a trovare la spiegazione del successo del Napoli
2019 archivio Image / Cronaca / Mark Zuckerberg / foto Imago/Image ONLY ITALY

Solo qualche giorno fa, nell’annunciare un piano di ristrutturazione che porterà al licenziamento di 11.000 persone nella sua azienda, Mark Zuckerberg – CEO di Meta, la società di Facebook – ha scritto: “Come siamo arrivati a questo punto? All’inizio del Covid, il mondo si è spostato rapidamente online. Molti hanno ritenuto che questa accelerazione fosse permanente e sarebbe continuata anche dopo la fine della pandemia. Lo credevo anche io e per questo ho aumentato gli investimenti. Purtroppo, in realtà non è andata come mi aspettavo”.

Nello stesso mondo in cui un tale fallimento di una scommessa provoca cotanta conseguenza, il naturale delirio mondano e calcistico è alla ricerca del motivo scientifico del successo dei primi mesi della stagione del Napoli. È una attività spasmodica per i giornalisti nazionali che vedono nervosamente sfumare mesi di investimenti professionali sulle solite squadre con seguito ben maggiore e che, non facendosene una ragione, tentano di rassicurarsi a vicenda sulla certezza che presto finirà – perché le squadre di Spalletti si esauriscono, confermano gli astri. È esercizio ancor più doloroso ed estenuante per i cavernicoli del sentimento nostrani, questa mandria di urlatori social e para-social che avevano preparato l’incasso per il fallimento della società, la sua dissoluzione sportiva, l’annientamento della sempiterna fede e dell’immancabile orgoglio partenopeo, che ora devono barcamenarsi fellinianamente per convincere il folto pubblico inviperito che le critiche erano atti d’amore mascherati di virile passione. È infine pura esorcizzazione quella di chi spera nel miracolo e, nel tentativo di ridurre le eventuali sofferenze, cerca qualunque conferma possibile in un numero di improbabili affinità col passato, se non fosse che questo Napoli non ha nulla a che vedere con quello del 1987, che il calcio oggi è tutt’altro sport, che politica, società, tifo, gioco, città sono completamente mutati, nonostante il dispiacere di chi continua a vivere in modo incessante e noioso la propria infanzia.

Ora, c’è da chiedersi: se Zuckerberg non ha un software di analisi del futuro o di supporto al successo, tanto da dover licenziare il 13% della sua azienda, cosa può farci pensare che esista un software che abbia decretato il successo del calcio mercato del Napoli? Cosa può indurci a ritenere che, tra la scorsa stagione e quella attuale, sia intervenuto un quid magico, segreto – che l’utilizzo di un’arma nascosta e potentissima abbia aiutato la squadra, la proprietà, l’ormai celebre Giuntoli (divenuto un po’ Archimede Pitagorico, un po’ Indiana Jones) a venire improvvisamente a capo di un campionato come mai accaduto prima?

Niente. Niente può farlo se non l’ansia perenne che gli uomini provano al cospetto dell’elemento casuale di quello che – forse è ormai sfuggito – si chiama gioco. Ci si prepara, si pianifica, si misurano e definiscono bilanci, si costruiscono strutture, si tirano su imprese e contratti ogni anno, con maggiore o minore perizia. Si scommette. Poi si va in campo e si gioca. E le cose iniziano a capitare. Alcune scommesse si mostrano vincenti, altre no.

Molto del mondo lo stabilisce la necessità – quella che i greci, marpioni, chiamavano Ananke, entità cui persino gli dei sottostavano in silenzio. La stessa pandemia che aveva inebriato Zuckerberg ha spaventato De Laurentiis. Il primo ha visto l’alba del metaverso, il secondo l’orrenda strada verso l’oblio. Dove il primo ha speso fiumi di risorse, il secondo ha dovuto ridurre per non morire. C’è un nutrito gruppo di persone che crede religiosamente nell’esistenza degli uomini visionari – quelli che hanno il progetto, quelli che la ingarrano sempre, quelli che, come nei film dei detective, guardano il muro con le foto documentali di dieci anni di cerimonia di un serial killer e in un baleno capiscono la storia psicologica dell’assassino – ma, nella realtà, a meno che non si parli di Santa Caterina da Siena, di visioni gli esseri umani ne hanno ben poche. Le visioni sono solo i racconti ex-post del naturale dispiegarsi della Necessità. Sono i desideri umani che cercano rassicurazione, che vogliono vedere nel rigore rasoterra calciato da Maradona un vezzo e non la banale conseguenza dell’attendere il movimento del portiere fino all’ultimo istante disponibile. (Quasi) tutto è necessità.

Le spiegazioni utilizzate per dar conto del Napoli primo in classifica sono esilaranti: si va dai terzini che ora “spingono di più e vengono dentro il campo” – una immagine vagamente pornografica – a Lobotka che gioca dieci metri più dietro ed ha trovato nuova linfa – la costante interpretazione metrica del gioco del pallone. Sono invece poco accreditati eventi più ragionevoli ma considerati secondari rispetto a cotanta scienza: che siano cambiate le persone che giocano, magari l’ordine degli armadietti, le stanze in albergo, gli argomenti di cui i calciatori parlano o non parlano tra loro.

Noi proveniamo da una istruzione scolastica imbalsamata in cui ci è stato insegnato che Cristoforo Colombo fu il primo europeo a scoprire l’America perché aveva studiato l’esistenza dei venti Alisei, con una semplificazione che tutto sommato non spiegherebbe la differenza tra l’ammiraglio genovese e il compianto Edmondo Bernacca. Quanto infatti viene generalmente sottovalutato è che Colombo fu l’unico a riuscire a tenere a bada – dirigere, gestire, motivare – l’equipaggio di tre caravelle, di uomini stanchi, disperati, con la ragionevole certezza di portare le corna dopo tante settimane di oceani, convincendoli a navigare per mesi senza vedere un lembo di terra. Forse anche Colombo avrebbe risposto al sempre incisivo intervistatore a bordo campo, che gli chiedeva se avrebbero mai trovato le Indie, che mancavano ancora migliaia di miglia alla fine della stagione.

Un grande filosofo scrisse un giorno: “È come Las Vegas: a volte sei su, a volte sei giù, ma alla fine il banco vince sempre. Il che non esclude il divertimento”. Ecco, sarebbe bene non escluderlo.

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