Al Mundo lo storico centravanti del Real Madrid: «Il club me lo tenne nascosto, in attesa di altri esami. Ho amato il calcio ma ho iniziato a vivere quando ho smesso»
El Mundo intervista Carlos Alonso Santillana centravanti del Real Madrid anni 70 e 80, celebre per la sua elevazione e i suoi gol di testa. In tutto ha segnato 290 reti col Madrid anche se lui ne conta 352.
Ricordo con particolare affetto il quinto gol contro il Derby County nel ’75, in Coppa Uefa. Avevamo perso lì 4-1 e vinto 5-1 ai supplementari al Bernabeu. Segnai il gol decisivo, fu molto bello, compare sempre quando si parla della storia del club. Vicente [Del Bosque] mi passò il pallone, io controllai col petto, feci un sombrero al difensore e segnai al volo di sinistro. Senza esagerare, c’erano 120.000 persone allo stadio ed è stata una sensazione incomparabile e meravigliosa.
Quando hai quel dono (il colpo di testa), è difficile apprezzarlo. Sapevo dove stava andando la palla, saltavo un istante prima dell’avversario, rimanevo in aria per un po’ e giravo il collo. È tutto qua. Tutto in un un secondo. Non voglio dirti bugie, molte volte mi sono sorpreso: “Accidenti, che gol ho segnato”.
Il Dna del Madrid
Esiste e viene trasmesso in quello spogliatoio di generazione in generazione. Con il tempo e l’evoluzione del calcio è diventato più complicato e ci sono stati momenti in cui ho dubitato che fosse rimasto, ma in un giocatore come Benzema lo vedi molto chiaramente. È arrivato da bambino totalmente ignaro di questa storia e oggi è un leader in cui si rilevano tutti i valori di Madrid. Se guardi indietro, vedi la catena di trasmissione: Ramos, Raúl, Hierro… Quando sono arrivato, Amancio ci trasmise alcuni slogan che ci colpirono: “Chi non esce morto da questo stadio, non è degno di giocare qui”. Gli era stato trasmesso da Gento o Di Stéfano (…). Il Dna è abbastanza semplice: questa maglia è stata indossata da Di Stéfano, Gento e Puskas, quel prestigio va difeso e qui non si può perdere senza lottare fino all’impossibile. (…) Gli avversari lo sentono: se perdi la testa per un minuto contro il Madrid, sei morto. Lo sanno ed è spaventoso. È così da un secolo.
A 21 scoprì di avere un solo rene.
La cosa peggiore è che l’ho scoperto dalla stampa. Che avevo un rene solo e che la mia carriera era in pericolo. Ho letto il giornale Pueblo e in copertina c’era scritto: “Santillana deve rinunciare al calcio”. È stato terribile. Non sapevo nulla, anche i miei genitori lo hanno scoperto dal giornale, disgustoso… Il club lo sapeva e lo aveva tenuto nascosto mentre facevano esami su di me, ma uno dei medici che mi aveva visto lo ha detto. Fu la prima volta che i miei genitori lasciarono Santander per stare con me. Psicologicamente è stato molto difficile.
Aveva mai avuto problemi prima?
Non ho mai vissuto una vita del tutto normale. Tutto questo è stato scoperto perché, in una partita contro l’Espanyol, Pedro de Felipe mi diede una ginocchiata nella parte bassa della pancia e quando sono caduto a terra ho capito che qualcosa non andava, perché non riuscivo ad alzarmi. Mi portano fuori su una barella, urino sangue e iniziano a farmi esami su esami. Così scoprono due cose: che la lesione renale stava guarendo senza problemi… e che avevo un solo rene. Nacque così il dibattito: se può un calciatore giocare con un solo rene? C’era il rischio che un altro colpo avrebbe portato via l’unico rene che avevo. Così siamo rimasti fermi per mesi, senza che nessun medico volesse autorizzarmi a riprendere. Finché il club mi portò a Barcellona dal dottor Puigvert, che era un’eminenza mondiale in urologia.
Cosa le disse?
Mi accompagnò da Saporta e dai miei genitori e stemmo a casa di José Antonio Samaranch che preso l’appuntamento e si prese cura di noi. Il mio problema più grande era psicologico perché avevo già recuperato dal punto di vista del rene, ma avevo paura dopo aver sentito tanti medici dubbiosi. Puigvert mi disse: “Guarda, Carlos, hai solo una testa e se lasci cadere un vaso di fiori, ti uccide. Punto e basta. Hai solo un fegato. E non è per questo che smetti di fare le cose. Con il rene è lo stesso. Gioca senza paura”. E lì ho deciso di continuare, anche se c’è voluto molto per tornare a giocare di nuovo bene e senza paura.
Ora come vive il tempo libero?
Ho lavorato alla Reebok per 23 anni, ho smesso e ora mi sto godendo la famiglia e i nipoti. Con il calcio non vivevi troppo, ti allenavi sempre, giocavi, viaggiavi, dovevi stare concentrato. È tutto molto bello, ma non vivi finché non smetti.
Non desiderava rimanere nel mondo del calcio?
No. Ho amato il calcio, fin da quando ero bambino, ma per giocarlo. La gioia di segnare un gol è meravigliosa, ma essere un allenatore mi è sempre sembrato una tortura. Ho visto da vicino quel che hanno sofferto, quanto il calcio sia ingiusto per loro e quanto siano ingiusti loro stessi. Fare l’allenatore non mi ha mai attratto. Ricordo che Camacho, Juanito e Valdano stavano prendendo il patentino quando ancora stavamo giocando e hanno cercato di convincermi, ma non mi ha mai interessato.
Ha avuto molti allenatori ingiusti?
Tutti. Commettono ingiustizie perché non hanno scelta. Ci sono sempre calciatori che si allenano alla grande e non puoi schierarli perché c’è qualcun altro che è più pigro, lavora la metà ma è nato con più talento e sai che può risolvere la partita e salvarti il posto. Questo tipo di ingiustizie mi faceva star male anche se le capivo. Il tifoso vede solo i calciatori, ma quando sei dentro vedi i genitori che stanno rischiando il loro futuro e questo è in mano agli allenatori. Non volevo quella responsabilità. Sono stato molto più felice in questo modo.