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«Rubammo il pallone di Maradona, ma non era tutto d’oro. Lo sciogliemmo per proteggerci dai clan»

Michelangelo Mazza, collaboratore di giustizia appartenente alla banda del buco al Domani: «Da rapinatore diventai camorrista, è un salto nella merda, un suicidio».

«Rubammo il pallone di Maradona, ma non era tutto d’oro. Lo sciogliemmo per proteggerci dai clan»

Sul Domani un’intervista a Michelangelo Mazza, collaboratore di giustizia ed ex camorrista. Nipote di Giuseppe Misso, una delle figure di primo piano nella storia della camorra a Napoli, anche lui pentito. Ripercorre gli anni di criminalità e parla ai giovani:

«Vi raccontano che se diventate camorristi fate il salto di qualità, passando da una vita di mancanze a una di potere, ma è falso. Quando si diventa camorrista si fa un salto nella merda, è un suicidio».

Racconta la sua prima rapina, con la cosiddetta banda del buco: il pallone d’oro di Diego Armando Maradona, custodito nelle cassette di sicurezza a piazza Mercato, nel caveau della banca della provincia di Napoli, nel 1989.

«In due cassette trovammo orologi, diamanti, orecchini e anche questo pallone. Noi non avevamo intenzione di rubarlo, ma quando lo abbiamo trovato lo abbiamo trafugato con tutto il resto. Si componeva di due parti, c’era una base, il piedistallo e la sfera anche se non era tutto d’oro. Fu la mia prima rapina».

Dopo la rapina, la banda portò il bottino da un orafo suo complice. Alcuni dei rapinatori non sapevano cosa fare. Erano tifosi del Napoli. Mazza racconta:

«Lo abbiamo sciolto subito perché c’era qualcuno di noi che iniziò a tentennare, ma l’orafo disse “questa è la prima cosa che dobbiamo fondere altrimenti lo vogliono tutti”».

Se non lo avessero fatto, i clan napoletani avrebbero fatto di tutto per recuperarlo e restituirlo a Maradona. Mazza, all’epoca, non era nei clan camorristici, era solo un rapinatore.

«Per quella rapina vennero tutti, vennero i Licciardi, i Contini, i Lo Russo e ognuno voleva qualcosa: orecchini, orologi, il pallone, non ebbe niente nessuno. Restituimmo solo due orologi, ma forse non erano neanche di Maradona».

Rapinatore fino al 1999, a 26 anni Mazza decise di impugnare le armi per vendicare la zia Assunta Sarno, uccisa dai killer del gruppo camorristico rivale dell’alleanza di Secondigliano. Fino al 2006 ha commesso 12 omicidi. È stato condannato in via definitiva per nove, ora è a processo per altri tre e per un duplice tentato omicidio.

«Impiegavo mesi per fare una rapina, c’era bisogno di organizzazione. Io non credevo che ci volesse così poco per fare un omicidio, pensavo fosse difficile, invece è un attimo. La mia prima vittima non si è accorta di essere stato ucciso, ci penso sempre. Mi ricordo la gratificazione iniziale, dopo qualche giorno sentivo disagio, ma non capivo. Ho capito dopo 15 anni: commettendo un omicidio avevo perso delle cose, per prima cosa l’innocenza».

Ha ucciso anche un padre sotto gli occhi del figlio, mentre giocava a calcetto.

«Il padre giocava a calcetto, noi entrammo in campo e lo uccidemmo. Il figlio era in panchina a guardare. È facile uccidere, troppo facile».

Parla ai camorristi:

«Qual è la vostra dignità? Dove sta? La dignità di riempire la città di droga? Di uccidere chi non se lo aspetta? Io li ho conosciuti tutti i boss di camorra, mai nessuno è andato a uccidere personalmente, si sono sempre affidati ai giovani folli. Senza giovani folli non farebbero niente, i boss sono zero. I ragazzi non devono collaborare con la giustizia, non devono proprio commettere i reati. La dignità è una sola, alzarsi la mattina e andare a lavorare».

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