Intervista all’autore del libro “Un lavoro da mediano”. «È un lavoro e un gioco, non è necessario drammatizzare. C’è chi soffre la pressione di una curva, io no»
I punti in comune con Alessandro Gazzi sono numerosi. Li ho scoperti pochi giorni fa, quando ho deciso di realizzare l’intervista che leggerete fra breve. Siamo nati in una cittadina bellunese, Feltre, lui con qualche lustro di ritardo; abbiamo vissuto un anno a Viterbo, io allievo sottufficiale dell’esercito e lui calciatore, entrambi nel tentativo di dare un senso alle rispettive vite; siamo stati iniziati da napoletani, io all’educazione sentimentale da una ragazza di via San Domenico, al Vomero, lui alla professione dal suo agente Fulvio Marrucco; abbiamo avuto come primo mentore un altro napoletano, nel mio caso un ufficiale di artiglieria rigoroso e molto esigente, nel suo Massimiliano “Max” Favo, immagino che i lettori dai cinquanta in su se lo ricordino in alcune apparizioni fianco del secondo giocatore più forte del mondo (LOL); infine, Gazzi è cittadino onorario di Reggio Calabria per l’impresa della salvezza nel campionato 2006-2007 quando la Reggina partì con 11 punti di penalizzazione, mentre mio padre nacque nella città dello Stretto oltre un secolo fa, a poca distanza da dove sarebbe sorto lo stadio Bianchi poi ribattezzato Oreste Granillo a fine anni Novanta. Fine dell’intermezzo personale.
Gazzi ha lasciato il paese natale Santa Giustina e le Dolomiti a 18 anni. Destinazione Roma, in tasca un contratto con la Lazio fresca di scudetto e l’aura della promessa del calcio italiano. Poi le vicende si sono ingarbugliate e il ragazzo, nel mentre si faceva uomo, ha trovato conforto nella scrittura, divenuta passione diligente e metodica che lo ha portato a pubblicare a inizio febbraio il suo primo libro “Un lavoro da mediano – Ansia, sudore e serie A” (66thand2nd, 240 pagine, 17 euro). Nei venti anni intercorsi le traversie non gli impediscono di cimentarsi in due campionati con la primavera della Lazio, varie apparizioni in C1, diventare una colonna del centrocampo del Bari in B prima e in A poi, quindi a Siena, a Torino lato granata, a Palermo e infine ad Alessandria dove lo scorso anno chiude una carriera sviluppata in 134 presenze e 1 gol in C, 164 con 5 gol in B e 221 con 4 gol in serie A. Fanno 509 apparizioni nei campionati professionistici al ritmo di rock alternativo, il genere musicale preferito.
Ma forse è il momento di riavvolgere il nastro e di affrontare i capitoli uno alla volta. Cominciando dall’ansia perché il calcio se non è un mero pretesto, nel libro di Gazzi non va oltre il contesto e il centro della scena se lo prendono le difficoltà e le paure, ma soprattutto la mentalità e la forza d’animo per superarle, senza cercare alibi o responsabilità esterne.
È vero che voleva smettere dopo la Lazio?
Ho avuto momento difficile alla Lazio e sì, a un certo punto ho chiamato mio padre e gli ho detto che volevo lasciare il calcio, volevo una vita normale, l’università, un lavoro, una famiglia. Ero giovane. Molto giovane.
Poi però ha trovato la forza di cambiare decisione
Diciamo che ho dato un’ultima possibilità alla mia carriera e da quel momento è cominciato un percorso che mi ha portato con un po’ di fortuna a calcare i campi di serie A e di migliorarmi. Chiaro che nel percorso di un calciatore si possono trovare momenti facili e meno facili.
Il libro testimonia una grande forza d’animo. Nonostante gli infortuni, le ansie, le paure, i risultati altalenanti non ha mai dato spazio agli alibi. Lo sa che è molto ‘Napolista’ il suo atteggiamento? Come vede, l’aforisma di Spalletti ‘Lamentarsi è da sfigati’ è una sorta di manifesto per queste pagine.
È vero, gli alibi distolgono l’attenzione dall’obiettivo. E io ho sempre cercato di contare su me stesso, di andare d’accordo con tutti e di imparare da tutti, qualsiasi fosse l’esperienza che stessi facendo, con la Primavera della Lazio, con il Treviso in B, con la Viterbese in C, eccetera.
Il contesto l’ha sottoposta a pressioni diffuse o individuali talvolta molto pesanti. Eppure in nessuna riga del suo libro evidenzia risentimento o deresponsabilizzazione.
Il fatto di essere stato autocritico e con un carattere molto chiuso paradossalmente mi ha permesso di superare le difficoltà, di trovare dentro di me le risorse per affrontare le ansie e i problemi. E poi ho sempre cercato di rimanere con i piedi per terra.
Dopo l’episodio con la Lazio ha avuto diversi momenti difficili. Però non ha mai mollato fino all’anno scorso a 38 anni.
Ho avuto la fortuna di giocare a calcio. C’è sempre di peggio nella vita. Non è necessario drammatizzare troppo. È un lavoro e un gioco. Nel libro ho cercato di esprimere le emozioni che ho vissuto. C’è sempre un aspetto umano ed emotivo da considerare oltre la tecnica e la tattica. E considerare il calcio sul doppio binario dello sport e del lavoro, da un parte la componente dello spettacolo, dall’altra la professione. Le pressioni dipende da come vengono interpretate. Resto convinto che bisogna produrre lavoro e focalizzarlo sull’obiettivo, che sia la vittoria o il mantenimento della categoria. E naturalmente va costruito insieme alle persone che fanno parte della squadra, dal magazziniere al presidente.
A proposito di persone, lei ha incrociato due napoletani importanti per la sua carriera. Uno è Max Favo.
Max è stato uno dei leader di quella squadra a Viterbo. Una guida sia umana che tecnico tattica. Giocava nel mio ruolo ed era il più anziano e più esperto di tutti noi, chiaramente, avendo oltre 500 partite sul groppone. Con Max ho imparato a giocare e a fare i movimenti appropriati sul campo e a comportarmi all’interno di uno spogliatoio.
L’altro è Fulvio Marrucco, il suo agente. Avete sempre lavorato insieme?
Sempre. Mi ha seguito per tutta la carriera. È stato il primo e unico agente sportivo che ho avuto. Educatissimo, garbato, di grande esperienza, ho sempre lavorato bene con lui. È stata la persona di fiducia che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà e, come tutte le persone che tengono a te, è stato determinante per il sostegno che mi ha dato.
Non ha avuto diffidenza all’inizio? In fondo lui veniva da una grande città e lei da un paesino, lui del sud e lei del nord, lui navigato e lei inesperto.
No perché mi era stato consigliato dall’allenatore del Treviso e poi il fatto che venisse da un contesto diverso viene in secondo piano perché il rapporto che instauri è basato sul calcio, il calcio è un medium. In 20 anni Fulvio è stato sempre al mio fianco anche in momenti critici. E poi amava i Beatles, come potevo essere diffidente.
Ha girato un po’ tutta Italia e nel libro lo racconta con molti particolari. Si è trovato bene ovunque?
Il salto grosso è stato a 18 anni da Santa Giustina a Roma dove, ai miei occhi c’era tantissima gente. C’era gente ovunque e a qualsiasi ora. Però sono sempre partito con l’idea di attingere il meglio che mi potessero dare la città e le persone. Ho avuto modo di ambientarmi in qualsiasi contesto. In tutte le esperienze ci sono aspetti negativi, ma sono sempre focalizzato su quelli positivi, cerco di non farmi condizionare.
Qual è il ricordo più vivo?
Il calore delle persone quando le cose vanno bene. Ma anche quando vanno male ti sono vicini. Al nord è diverso. C’è chi soffre la pressione di una curva, per me invece è motivante avere il pubblico che ti incita e ti spinge. Palermo, Napoli, Bari, quando la squadra viaggia bene ti mettono letteralmente le ali.
Non ha avuto problemi ad ambientarsi in contesti tanto diversi rispetto a quelli dove è cresciuto?
No, anzi, pur venendo da un ambiente freddo in termini culturali, stare a stretto contatto con persone più estroverse mi ha aiutato a smussare gli spigoli. Soprattuto i primi tempi a Bari, mi hanno dato una mano a maturare.
È vero che i compagni la prendevano in giro per la Daewoo usata acquistata dallo zio?
Sicuramente (ride) era la prima automobile. Non potevo sbilanciarmi e poi non sono appassionato di auto. Ho preferito sempre la musica, i film, la mia famiglia.
Anche il lato spettacolare, i lustrini dell’industria calcistica, non sembra l’abbiano attirata granché
Questo è quello che appare dall’esterno, è il contorno che fa spettacolo. Per me sono sempre state importanti le prestazioni in campo. Quel che ruota attorno viene in secondo piano, dopo l’aspetto tecnico. Il calcio mi è sempre piaciuto molto, ma fondamentalmente per me è stato ed è un lavoro da svolgere con la massima professionalità di cui sono capace.
A Reggio Calabria come è andata?
Sei mesi splendidi. L’esordio in serie A e un’impresa sportiva incredibile. La città era pazza di noi.
Nel libro scrive che il calcio è sempre venuto dopo la scuola.
Vero. Quando mi trasferii a Roma, la Lazio mi propose una scuola privata per arrivare al diploma, ma non aveva l’indirizzo in informatica. Dopo i quattro anni al ‘Negrelli’ di Feltre però non volevo perdere la specializzazione e con i miei genitori scegliemmo un istituto tecnico pubblico vicino Formello. Aveva l’indirizzo in informatica, così ho potuto completare gli studi e diplomarmi.
Che musica si ascolta negli spogliatoi, solo i tormentoni estivi?
Dipende un po’ dai gusti di chi decide di metterla. Sicuramente la fruizione negli anni è cambiata (dal cd all’ipod a spotify) ma la musica ascoltata si avvicina sempre a quella radiofonica, ai classici rock e andando più nello specifico all ‘hip hop e suoi simili. Di rado capita di ascoltare qualche pezzo alternativo. Comunque come è normale che sia capita di ascoltarla più spesso quando le cose vanno bene e ci sono i risultati. In caso di sconfitta o di periodo nero, direi proprio di no.
La musica ha accompagnato tutta la sua carriera
Quando firmai il primo contratto da professionista pensai: wow, adesso posso comprarmi tutti i cd che voglio.