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Diego, sei sempre stato solo

Quando tutto è cominciato a finire, molti di noi si accorsero che, nei giorni felici, c’era più malinconia che felicità nei tuoi occhi. Fino alla estrema solitudine nella tua ultima casa sul fiume Paranà

Diego, sei sempre stato solo
Napoli 04/07/2017 - presentazione 'Effetto Maradona' / foto Insidefoto/Image nella foto: Diego Armando Maradona

E’ una incredulità nostra, certamente, di noi del club ti vogliamo bene per sempre, questa incredulità che tutto continui normalmente, che non c’è più dolore e che il pianto sia finito, come è naturale, è la vita, lo sappiamo, le assenze si allontanano e il cielo è tornato magnifico di una azzurra innocenza.

Lo stadio è là, come se nulla fosse, ma le pietre, Diego, le pietre e l’erba ancora sanno di te, respirano di te, sussurrano il tuo nome, e questo è tutto, gli echi di felicità sono svaniti nel tempo che è passato e non è più lo stesso. Questa è la nostra fissazione, Diego, di noi del club ti vogliamo bene per sempre. E una dolce canzone dice che è n’anno, ce pienze ch’è n’anno. E un’altra canzone dice che cosa rimane dentro di noi, questa celeste nostalgia.

La tua ultima casa sul fiume Paranà è stata l’estrema dimora della tua estrema solitudine, il ragazzo solo che sei sempre stato, nella luce accecante del pallone, osannato e divorato dalla folla, circondato e succhiato dalla banda dei tuoi quaranta pseudo-amici, ma solo, il morso della solitudine conficcato nel cuore dal giorno in cui, andando a Barcellona, lasciasti il calore della tua vita vera, a Buenos Aires, fra mamma Tota e papà Chitoro, i sei fratelli e la pipa di nonna Salvadora, passando bruscamente allo sfolgorio artificiale del successo in una terra straniera, ammaliata dai tuoi passi di danza, ma straniera al tuo cuore e ostile quando la danza s’arrestava.

L’hai sentito subito quel morso sfuggendogli nelle prime notti brave catalane, nelle prime notti bianche. E, a Napoli, ti abbiamo soffocato, e che vita era la tua dopo che si spegnevano le luci del San Paolo? Prigioniero della nostra esaltazione, inseguito, braccato, rifugiandoti nelle scorribande notturne, le uniche vie di fuga. Il nostro era un amore cieco ed egoista. Non abbiamo capito, l’abbiamo capito dopo. Accidenti, eri un ragazzo, non un dio invulnerabile. Volevamo essere felici, ma non pensavamo alla tua felicità. La nostra era frenesia.

Quando tutto è cominciato a finire, e sapevamo da tempo che era la fine di tante cose, come disse Alce Nero quando morì il sogno del suo popolo, allora molti di noi si accorsero che, nei giorni felici, c’era più malinconia che felicità nei tuoi occhi. Ti stavi perdendo per sempre e noi, col nostro amore proclamato e cantato, non servimmo a niente, solo a confonderci in una gioia spettacolare, storditi nell’adorazione del paladino scugnizzo, l’orgoglio di averti, tu con noi e non con i club più potenti, ignorando il ragazzo che eri, il fragile ragazzo di Villa Fiorito che, senza il pallone, prendevi graffi dalla vita e poi unghiate tremende facendoti ribelle e dannato.

Noi del club ti vogliamo bene per sempre l’abbiamo capito dopo l’ultima rabona, dopo la trappola dell’antidoping, dopo l’ultima inutile ancora di salvezza a Siviglia, a Rosario e al Boca, quando hai preso a lottare per sopravvivere nelle notti di disperazione, nei giorni delle cliniche, nelle ore in sala operatoria due volte al cospetto del Barba.

Allora abbiamo preso ad amare veramente il ragazzo drammatico che eri, l’uomo grasso che diventasti, il viso appena un ricordo dei giorni dei riccioli neri, magico giocoliere che non giocava più. Allora sei stato Diego per sempre, isola nella corrente, la vita che è dolore e riscatto. Le tue gambe avevano finito di danzare football, il tuo cuore era stanco, il successo era una luce lontana. Ti abbiamo amato veramente quando ti abbiamo amato per le tue sofferenze, non per le giocate deliziose dei tempi di gioia.

Hai lottato come un leone la vera partita della tua vita, la nemica bianca, l’illusione di uno stordimento. Nella casa sul Paranà, nei tuoi ultimi tempi, eri un leone esausto, assopito. Avevi tenerezze nuove. Per il figlio napoletano, per il figlio di Diego junior. La folla osannante era svanita. Ora vivevi la tua solitudine concreta. Nel mondo eri Maradona, una leggenda da narrare. Nella casa sul Paranà eri Diego, piegato ma vivo, ghiotto dei gamberi all’aglio e ancora più dentro ai nostri cuori dolenti del club ti vogliamo bene per sempre.

La caduta fatale, un anno fa. La fine. È n’anno, ce pienze ch’è n’anno.

L’articolo è stato pubblicato oggi dal Corriere dello Sport.

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