ilNapolista

Jon Krakauer: «Ho un senso di colpa per quella spedizione sull’Everest, la gente non lo ha capito»

Uno dei sopravvissuti alla scalata commerciale del 96: «Ho scritto un libro per far desistere le persone e invece ho sortito l’effetto contrario. Che rabbia»

Jon Krakauer: «Ho un senso di colpa per quella spedizione sull’Everest, la gente non lo ha capito»

Sette, settimanale del Corriere della Sera, intervista Jon Krakauer. saggista e alpinista statunitense. E’ stato uno dei sopravvissuti di una spedizione commerciale che ha scalato l’Everest il 10 maggio 1996. Era stato invitato alla spedizione come giornalista. Da quella terribile esperienza sono nati il libro “Aria sottile” e il film “Everest”. Sulla sua scrivania c’è una foto che lo ritrae con due degli 8 scalatori che morirono quel giorno, Andy Harris e Doug Hansen. Stavano per lasciare il campo base per iniziare la scalata.

«Eravamo molto felici in quel momento. Credo fosse intorno al 12 aprile 1996, il giorno del mio compleanno. Eccoci lì. Poi ripenso a Andy e al fatto che non è mai nemmeno stato trovato il corpo. Diciotto mesi dopo sono tornato sull’Everest, credo settembre, ottobre 1998, con i genitori di Andy Harris, venuti dalla Nuova Zelanda; c’erano la sorella di Doug dagli Usa, mia moglie e un amico sherpa. Avevamo questo telescopio potentissimo, puntava anche a 17.000 piedi (oltre 5 km, ndr). Dal campo guardavamo la catena e volevano vedere esattamente l’ultimo luogo in cui Andy, Doug Hansen e Rob Hall erano stati e dove erano morti. Il corpo di Hall è stato trovato, mentre quelli di Andy e Doug no. Per la famiglia avere l’opportunità di guardare il punto esatto è stato un momento molto profondo».

Su quell’esperienza da giornalista nella spedizione dice:

«Per me l’Everest era una “tacca sul fucile” ed è una gioia sapere di avere scalato la vetta più alta del mondo. Ma me ne pento: i costi sono stati troppo alti. Vorrei non esserci mai andato. Ho un grande senso di colpa. All’indomani di quella tragedia non volevo nemmeno riconoscere quello che mi era successo, né che soffrivo di stress post-traumatico. Ero depresso, mia moglie chiedeva cos’avevo e io le rispondevo male. Mi ci sono voluti dieci anni».

Ha raccontato tutto nel suo libro.

«Sono felice di aver scritto il libro. Pensavo che il libro potesse far desistere tanti, e invece ha avuto l’effetto contrario: molti sono venuti a dirmi quanto il mio libro li avesse ispirati a conquistare l’Everest. Che rabbia!».

Per superare il senso di colpa che avvertiva per la morte dei compagni è stato in analisi per 8 anni, terapia di gruppo.

«La terapia di gruppo non scaccia il dolore, lo rende sopportabile, ti aiuta a non doverti ubriacare, drogare, o nasconderti sotto le coperte. Cerchi, con gli altri, una chiave di lettura alla tua storia, sperimenti empatia e comprensione per gli altri. Ognuno deve trovare la sua verità e darle voce».

Gli viene chiesto qual è un’esperienza estrema che ha fatto e di cui non ha scritto. Risponde:

«Mi son preso cura di mia madre nel suo ultimo periodo. I suoi occhi mi dicevano: “No, non voglio morire di demenza. Ho un piano”. Si era preparata delle pillole per farlo, ma non ricordava dove fossero. So che è un argomento delicato, ma evitare che qualcuno debba tenermi in vita sprecando risorse per me è una scelta…».

 

ilnapolista © riproduzione riservata