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Muti: «Mi sono stancato della vita. E’ un mondo in cui non mi riconosco più»

Al Corriere: «Rimpiango la serietà dei miei maestri. I direttori d’orchestra gesticolano e studiano poco. Quando morirò voglio musica diretta da me e niente applausi»

Muti: «Mi sono stancato della vita. E’ un mondo in cui non mi riconosco più»

Muti: «Mi sono stancato della vita. E’ un mondo in cui non mi riconosco più, rimpiango la serietà dei miei maestri»

Il Corriere della Sera intervista Riccardo Muti. Tra un mese compirà 80 anni. Dice di essere stanco della vita.

«Mi sono stancato della vita. E’ un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: “Tutto declina”».

Sollecitato, il maestro spiega che rimpiange la serietà del passato.

«Ho avuto la fortuna di crescere negli anni 50, di frequentare il liceo di Molfetta dove aveva studiato Salvemini, con professori non severi; severissimi. Ricordo un’interrogazione di latino alle medie. L’insegnante mi chiese: “Pluit aqua”; che caso è aqua? Anziché ablativo, risposi: nominativo. Mi afferrò per le orecchie e mi scosse come la corda di una campana. Grazie a quel professore, non ho più sbagliato una citazione in latino. Oggi lo arresterebbero».

Continua:

«Rimpiango la serietà».

Muti critica i moderni direttori di orchestra.

«La direzione d’orchestra è spesso diventata una professione di comodo. Sovente i giovani arrivano a dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all’inizio dell’attività, basandosi sull’efficienza del gesto, talora della gesticolazione. Toscanini diceva che le braccia sono l’estensione della mente. Oggi molti direttori d’orchestra usano il podio per gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline a ciò che vede e meno a ciò che sente».

Ma non fa nomi, dice che è perché

«Non voglio polemiche personali: farei il gioco dei promotori di se stessi».

Critica anche il modo in cui si fanno le prove.

«Non si fanno neppure più prove serie. Le prove di sala, con il direttore al pianoforte che prepara la compagnia di canto, diminuiscono sempre più, in favore di settimane e settimane di prove date spesso a registi ignari di musica, che non soltanto non sanno leggere una partitura, ma sempre più sovente inventano storie che vanno contro il discorso musicale».

Torna sulla stanchezza verso la vita.

«Ecco perché talvolta, forse esagerando, dico che sono stanco della vita. Penso di non appartenere più a un mondo che sta capovolgendo del tutto quei principi di cultura, di etica nell’arte con cui sono cresciuto e che i miei insegnanti al liceo e al conservatorio mi hanno comunicato».

Dice che la migliore definizione della musica l’ha data Dante nel Paradiso.

«La musica è rapimento, non comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere. Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note».

Non teme la morte, ma lasciare i suoi affetti.

«Mi dispiace lasciare gli affetti. Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli animali. Il cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi rosa… E noi diamo del cane e dell’asino come se fossero insulti».

E su come vorrebbe il suo funerale:

«Scherzosamente dico che lascerò l’indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso incisioni, rigorosamente dirette da me. Non perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c’è la probabilità che si apra la bara… C’è una cosa però su cui sono serissimo. Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l’anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi».

 

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