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Prandelli non è stressato, è depresso

La depressione è una malattia. Quando avverti un vuoto dentro, quel vuoto non ha niente a che fare con lo stress, appunto, non riesci neanche a respirare

Cesare Prandelli non c’entra niente con Arrigo Sacchi e neppure con lo stress (tantomeno con Rino Gattuso, ma questa è un’altra storia). Pedersoli mi perdoni, ma derubricare il malessere dell’ex allenatore della Fiorentina ad una questione di incapacità a reggere la pressione e addirittura tirare in ballo gli stipendi milionari che imporrebbero ad un allenatore di farlo, vuol dire non avere la minima idea di che cosa possa passare nella mente non di un allenatore, ma di un essere umano.

Cesare Prandelli non è stressato: è depresso. Mi dispiace entrare a gamba tesa nella vita di un uomo come lui, nessuno dovrebbe farlo, nessuno dovrebbe essere, soprattutto, costretto a farlo. Ma io mi sento costretta, perché so bene cosa sia la depressione. Non mi volto dall’altro lato per paura di guardarla chiamandola soltanto “stress”.

Che Prandelli non fosse stressato ma depresso sarebbe stato chiaro a chiunque dotato di sensibilità ed empatia quando, dopo il 4-1 al Benevento, ha detto: “sento un vuoto dentro”. Tornando sulle sue parole, una settimana dopo, ha parlato di un momento di debolezza, umano. Come se dovesse giustificarsi per aver avvertito quel vuoto. Questa è stata la prima violenza che gli è stata perpetrata. Che cosa avrebbe mai dovuto dire di fronte alle telecamere di Sky? Che era depresso?

Cesare Prandelli non ha detto che era stressato, né che non si divertiva più e che non provava più nulla ad allenare, come Sacchi. Ha detto di essere depresso senza usare la parola depressione. È stato chiarissimo. Sarebbe bastato ascoltarlo, leggerlo. Nella lettera di commiato rivolta ai tifosi, del resto, lo scrive nero su bianco.

«Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono».

E ancora:

«In questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato anche il mio modo di vedere le cose».

La parola depressione non c’è, ma ci sono tutti i suoi sinonimi, compreso “ombra”.

Prandelli non mette mai il suo stato d’animo in relazione con il mondo del pallone. L’unico accenno che fa, non è riferito al fatto che il calcio troppo veloce sia la causa del suo malessere, ma la consapevolezza che, da questo momento in poi, nessuno più gli darà l’incarico di allenare una squadra.

«Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più».

Chi ci ha visto un richiamo allo stress della vita da allenatore ha solo voluto farlo. Non ce n’era alcuno.

Non mi interessa e soprattutto non voglio addentrarmi oltre nella psicologia dell’uomo Prandelli, lo trovo irrispettoso, come trovo una violenza il fatto di essermi sentita costretta, intimamente, a scriverne. Ma il bisogno più pressante che avverto, in questo momento, è che chi legge queste parole smetta di derubricare la depressione ad eccesso di stress. Perché altrimenti, quando ad essere depresso sarà il vostro migliore amico, vostra moglie, o vostro figlio (vi auguro con tutto il cuore che non accada mai), sarete costretti ad assistere inermi al suo disfacimento, fisico e psichico. Nello spiegarlo, nello sventolarlo davanti ad occhi che non vogliono vedere, sento quasi di stare facendo un servizio sociale.

Quando avverti un vuoto dentro, quel vuoto non ha niente a che fare con lo stress, appunto, non riesci neanche a respirare. Quel vuoto così solido, spigoloso, ingombrante, invade tutti gli organi che dovrebbero farti vivere. Semplicemente, anche se continui a respirare, vestirti la mattina, uscire (se sei abbastanza fortunato), smetti di vivere, di trovare un senso o una gioia o un dolore nella tua esistenza. Non avverti nemmeno più il sapore salato delle lacrime, perché neppure quelle ti escono più dagli occhi. Ricordatevelo quando incontrerete quel vuoto negli occhi di qualcuno che vi sta attorno. Sempre ammesso che vogliate guardarli, senza rifugiarvi nella comoda conclusione: “è stressato”, “è esaurito”.

La depressione è una malattia, la peggiore del secolo, dato che ancora c’è chi la considera eccesso di stress. Nessuno è pagato per sostenere la depressione, non ci sono cifre che tengano, neanche milioni. E’ talmente difficile uscirne che, quando ci riesci, giuri solo di non ricaderci mai più. E nella maggior parte dei casi, se ci riesci, davvero non torni più in quel buco maledetto.

Comprenderlo, o sforzarsi di comprenderlo, desiderare di spenderci un minimo di tempo o di fatica non è essere buonisti, ma smettere di essere qualunquisti, superficiali e sciatti. Sono stufa della narrazione secondo cui occorra solidarizzare solo con gli impiegati in cassa integrazione o con chi si è ritrovato disoccupato, con chi non riesce a mantenersi o con i professionisti che non incassano parcelle da mesi. Chiunque ha il diritto di essere depresso e di non essere accusato di essere semplicemente sotto stress. Di essere trattato da essere umano. Non c’entra niente quanto si guadagna e come. Quando si crepa, o si desidera di farlo, per la depressione, si è tutti uguali davanti alla corte di Dio. Che non lo dimentichi nessuno. Non è pietà: è empatia. Oggi è su quello che si regge il mondo, che non a caso, infatti, va a rotoli. Con immutato affetto e stima verso Pedersoli.

 

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