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Sacchi: «Smisi di allenare perché non provavo più nulla. La migliore decisione della mia vita»

Al Corriere: «Quando lo stress ti sovrasta, devi avere la lucidità di fermarti. La colpa è della cultura della vittoria ad ogni costo»  

Sacchi: «Smisi di allenare perché non provavo più nulla. La migliore decisione della mia vita»
foto Andrea Rigano'/Image Sport

Il Corriere della Sera intervista Arrigo Sacchi. Anche lui, come Cesare Prandelli ieri, nel 2001 si dimise dal Parma neanche un mese per colpa dello stress eccessivo. Commenta la scelta di Prandelli.

«In Italia ci vuole coraggio a dimettersi, perché non lo fa nessuno. E non parlo solo del calcio, ma anche della politica, delle istituzioni. Da noi chi si dimette è visto come un perdente, invece non è così. Ci vuole più coraggio a farsi da parte. Cesare poteva andare avanti, far finta di nulla, prendere lo stipendio, invece per rispetto verso se stesso e il club ha fatto un gesto di dignità e intelligenza, da grande uomo quale è. Ha vinto, ancora una volta».

Sacchi racconta di quando fu lui a lasciare, dopo una vittoria del Parma a Verona per 2-0.

«Appena finita la partita chiamai mia moglie e le dissi: basta, è finita. Per la prima volta, non avevo provato nulla. Nessuna soddisfazione, nessuna emozione. Lì capii che era arrivato il momento di chiudere».

Una scelta di cui non si è mai pentito.

«Smettere è stata la seconda decisione più giusta della mia vita dopo quella di fare l’allenatore. Ho dato tutto me stesso per 27 anni, sempre con lo stesso impegno, lo stesso perfezionismo, che fossi al Bellaria in Seconda Categoria o al Milan. Lo stress è stato un compagno di vita. Nel momento stesso però in cui ho percepito che la gioia per una vittoria non compensava più lo stress, ho capito che il mio tempo da allenatore era finito».

Racconta che andò anche da uno psicologo per capire se l’improvvisa assenza di emozioni fosse normale.

«Mi rispose che non era normale l’ansia dei 27 anni precedenti».

Lo stress, dice, «finché lo governi, è un plusvalore. Ti spinge al perfezionismo, al miglioramento costante. Se però lo stress ti sovrasta, devi avere la lucidità di fermarti».

E indica un colpevole:

«La colpa è della cultura della vittoria ad ogni costo, sbagliatissima. Il concetto del “se non vinci sei un fallito” è il peggior insegnamento che si possa dare a un ragazzo. L’errore, la sconfitta, fanno parte della vita. Perdi solo se non dai il massimo. E se non impari».

Lui qualcosa l’ha imparata.

«Che non volevo diventare il più ricco del camposanto. Se sono felice, se vivo senza rimpianti, se sono fiero di quello che ho fatto in quei 27 anni di vittorie e di sconfitte, di gioie e di stress, è proprio perché un bel giorno ho detto basta, grazie, va bene così. Non passa istante che non benedica quella decisione».

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