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Il pestaggio mediatico di Spalletti

Perché la celebrazione di Totti deve andare di pari passo con la distruzione di un grande allenatore? E poi chi l’ha detto che chi pensa al futuro, non ami la maglia?

Il pestaggio mediatico di Spalletti

 

Dedicato ai cattivi che poi così cattivi non sono mai (Ivano Fossati)

La tempesta mediatica a senso unico che da anni si è abbattuta su Luciano Spalletti, ricorda un passaggio indimenticabile di “When we were kings” il meraviglioso documentario sulla sfida del 1974 tra Alì e Foreman. Ricorda il momento in cui Foreman atterrò a Kinshasa e gli africani rimasero a bocca aperta: “Ma è nero!”. Non lo avrebbero mai immaginato visto che da settimane Alì ne parlava come del peggior nemico possibile, dell’uomo dalla parte dei potenti (oggi si direbbe del sistema), quindi nella loro immaginazione non poteva che essere bianco.

Ecco Luciano Spalletti ci ricorda quella scena. Perché possiamo anche comprendere la narrazione mediatica del personaggio Totti. Narrazione che, ci consentirà il diretto interessato, si sarebbe potuto avvalere di persone un pochino più qualificate: sia il documentario sia la serie tv (imperdibile Dotto sul Corsport) non sono neanche lontanamente all’altezza del calciatore Totti. Sopravvolando sul dilettantismo artistico, possiamo capire l’ansia di voler raccontare questo mito di Roma. Quel che però fatichiamo a comprendere è perché questo tentativo debba andare di pari passo con il pestaggio mediatico di Spalletti.

Per un adolescente dei nostri giorni, anche per un ventenne, Spalletti incarna il diavolo. O peggio. Ci perdonerà, rappresenta perfettamente l’uomo di niente, il 71 della Smorfia. E non l’allenatore che ha aiutato la Roma a essere per anni ai vertici del calcio italiano, che ha ribaltato la carriera di chi – come ad esempio Perrotta ma anche Taddei, giusto per fare due nomi – senza di lui avrebbe vissuto domeniche decisamente meno eccitanti, magari su campi di periferia. Perrotta ha vinto persino il Mondiale.

Spalletti è l’uomo che ha introdotto il falso nueve in Italia quando eravamo ancora un popolo che riusciva a parlare di calcio senza dissertare di tattica, senza immergersi in tediosi dissertazioni sui moduli e sui numeretti. E sì, lui aveva Totti. Ma anche Totti aveva lui. Perché Spalletti a Totti gli ha allungato la carriera. Lo ha convinto a diventare attaccante puro senza stravolgere il suo modo di giocare. Limando qua e là. Prendendosi il meglio di Francesco che a un certo punto – nel 2006, prima di infortunarsi – era diventato ingiocabile, immarcabile.

Spalletti è stato un profondo innovatore. E non ha innovato solo in periferia, a Udine. Là sono buoni tutti o quasi. No. Ha innovato a Roma, dove per farlo dovevi chiamarti Liedholm o Eriksson. Ed è arrivato a Roma nel 2005, al termine di una stagione che aveva visto alternarsi sulla panchina giallorossa quattro allenatori. Quattro: Prandelli, Voller, Delneri, Conti. Una stagione non disastrosa, di più. L’ottavo posto finale degli almanacchi non rende l’idea. A due giornate dalla fine erano quattordicesimi, con lo spettro della Serie B. Fu un gol di Cassano a Bergamo a salvarli.

Spalletti è arrivato a Roma pochi mesi dopo il terrore puro della retrocessione. Questo andrebbe ricordato nelle serie tv.

Nel 2005, Sensi chiamò Spalletti che aveva portato l’Udinese al quarto posto. Di lui si narra spesso la lite con Cassano. Ma è un frammento. Un dettaglio. Spalletti mise in campo la Roma come all’epoca in pochi si azzardavano a pensarlo. Giocò col 4-2-3-1, in anticipo di anni sul resto d’Europa. I tre non erano Özil, De Bruyne e uno a piacere. No. I tre erano Taddei Perrotta e Amantino Mancini uno che a Venezia, in Serie B, faceva panchina. E quell’uno là davanti era Totti.

L’accanimento mediatico su Spalletti – perché va bene il documentario ma con la serie tv siamo autorizzati a parlare di accanimento – peraltro sminuisce lo stesso Totti. È persona troppo intelligente per incastonare un allenatore così importante per lui e per la Roma nel tecnico degli ultimi due anni di carriera del Pupone. Sì, Spalletti commise i suoi errori. Esagerò. Fu anche maledettamente sfortunato: quell’immagine tv al gol di Totti lo ha inchiodato per sempre. Volle rinchiudersi nel personaggio dell’ottuso. L’avrà capito anche lui che ha sbagliato, ne siamo certi. Però bisogna fare i conti con la realtà e capire una volta e per sempre che l’addio di Totti a Roma non sarebbe mai potuto avvenire senza spargimento di sangue. Spalletti lo sapeva e si è immolato. Si è immolato, ne siamo sicuri, oltre che perché convinto, anche per amore della maglia. Non amano la maglia soltanto i nostalgici e i passatisti. Ama la maglia anche chi lavora al futuro di quella maglia. Ce ne dimentichiamo troppo in fretta.

Non c’è traccia di questo dubbio nella narrazione a senso unico che sta andando avanti da due anni. Una narrazione grottesca. Chiunque segua il calcio, che sia tifoso o meno della Roma, conosce fin troppo bene il valore di Spalletti e quel che Spalletti ha dato alla Roma.

Quel che sta avvenendo, quel che sta andando in onda, è profondamente spiacevole. Oltre che ingiusto. E storicamente falso. Stanno versando letame su un professionista che conosce il suo lavoro, che conosce il calcio. Su un uomo che ha precorso i tempi. Stanno pestando un allenatore vero. E non è che in Italia ce ne siano poi stati tanti.

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