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Il documentario su Totti è più un album di famiglia

Il Totti che emerge è un Totti politically correct, non all’altezza di un grandissimo calciatore che ha incarnato Roma nel bene e nel male. Si accende nel finale, quando si parla di Spalletti

Il documentario su Totti è più un album di famiglia

La rovina di tutto è stato Kapadia. Lui e i suoi modi di girare i documentari. Su Senna. Su Maradona. Anche su Amy Winehouse, ma quella è un’altra storia. Con un lavoro di anni alla ricerca di immagini inedite. E di interviste. Di pareri possibilmente mai ascoltati, o comunque funzionali al percorso narrativo scelto.

Il documentario su Diego, ad esempio, comincia con una scena da poliziesco, una scena che vale quasi l’intera opera. È il tragitto di Maradona a Napoli, scortato dalla polizia, dal Lungomare fino allo stadio San Paolo dove si tiene la conferenza stampa di presentazione. Immagini mai viste prima di Kapadia. Perché la forza di un film si basa sulle immagini. Soprattutto se è un film su un personaggio che abbiamo visto in ogni salsa per oltre vent’anni.

Non a caso l’immagine più potente del documentario di Alex Infascelli è quella che precede l’ultimo ingresso di Totti allo stadio Olimpico la sera dell’addio. La partita è finita. Roma, là fuori, lo aspetta per piangere e applaudire. Si siede sulle scale, in silenzio. E aspetta. Con lo sguardo quasi perso nel vuoto. È l’immagine che mette i brividi. Che sintetizza Totti e la sua scelta di vita: non rinunciare alla romanità. Anche quando a volerlo era il Real Madrid.

È nel finale che “Mi chiamo Francesco Totti” dà il meglio di sé. Quando il capitano, che forse ha seguito troppo da vicino la lavorazione del documentario, vuole raccontare il suo scontro con Spalletti. Il film sale di tono, improvvisamente. Ti ridesta da una visione lenta come Francesco non è mai stato nel suo modo di essere calciatore, nemmeno a quarant’anni. A tratti persino noioso.

Un film che segue un canovaccio tradizionale: Totti dalla culla ai giorni nostri. I filmati inediti sono quelli di lui in fasce a mare con mamma papà e fratello. Non proprio materiale succulento. Così come qualche immagine di Francesco – se non ricordiamo male mai chiamato Pupone – nelle giovanili della Lodigiani e della Roma. Carina una delle sue prime apparizioni tv con in studio Alberto Mandolesi sacerdote della romanità romanista.

Totti accompagna lo spettatore, è lui la voce narrante. Scelta azzeccata. Ma che probabilmente ha impedito incursioni in strade che forse al capitano sarebbero piaciute meno.

“Mi chiamo Francesco Totti” nel finale ha fatto piangere più di qualcuno. È un film bono come dicono buono a Roma, che poi è qualcosa più del semplice buono. È bono com’è bono Totti, com’è bona l’immagine di Totti. Accomodante, rassicurante, il contrario di spigolosa. Come se fosse destinato a una visione di amici.

Non c’è nemmeno il Totti sbruffone, quello di “Vi ho purgato ancora” o del “quattro, zitti e andate a casa” alla Juve. A Roma stamparono magliette con quell’immagine di Totti che dice alla panchina bianconera (a Tudor) di fare silenzio. Lo sputo a Poulsen è un frammento, così come il calcio a Balotelli. O lo sfrontato cucchiaio all’Olanda. È politically correct, direbbe qualcuno. Troppo perfettino. È un Totti di maniera. Non il personaggio che ha incarnato Roma nel bene e nel male.

Infascelli con le immagini centra perfettamente un momento: il triangolare amichevole organizzato dall’allenatore argentino Carlos Bianchi per mostrare alla società giallorossa il giocatore che avrebbe voluto al posto di Totti: Litmanen. Perché lui di Francesco non voleva più saperne. Si parlò della Sampdoria, nel film forse non è accennato. Totti ridusse “un certo Litmanen” a comparsa. Ovviamente a lasciare Roma fu Bianchi.

Ci sono altre immagini inedite, come quella del recupero dopo l’infortunio nel 2006, a pochi mesi dal Mondiale. Ma il documentario diventa mozzafiato, assume un ritmo da Totti, quando si racconta del duello finale con Spalletti. Di quello che Francesco vive come un tradimento. Perché – lo dice – il via libera al ritorno di Spalletti lo diede volentieri. Mai si sarebbe aspettato quel voltafaccia. Anche il montaggio diventa incalzante. C’è l’immagine di quel saluto che lascia Totti con l’amaro in bocca, che gli fa capire che non sarebbe stato più lo stesso. Quel susseguirsi di panchine e di ingressi a pochi minuti dal termine, quasi tutti contrassegnati da gol. Lui che esulta, Spalletti con la faccia di quello cui è morto il gatto. C’è tutto. Ci sono i fischi dell’Olimpico per l’allenatore. C’è lui che non viene convocato e va lo stesso allo stadio. Ecco se Totti avesse parlato più dei suoi nemici, il film ne avrebbe tratto giovamento. Se avesse parlato Spalletti, non lo diciamo nemmeno.

Poi c’è il finale. Lirico. Bello. Da fazzoletti. Con Claudio Baglioni scelto come colonna sonora. Roma che va allo stadio per salutarlo e per piangere. E forse il film è stato immaginato per quegli ottantamila là. Un grande album di famiglia.

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