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Il piccolo Maradona e quel palleggio infinito tra il primo e il secondo tempo dell’Argentinos

Il pubblico aveva occhi per lui e non voleva che si fermasse. Ma l’arbitro ordinò il perentorio inizio del secondo tempo

Il piccolo Maradona e quel palleggio infinito tra il primo e il secondo tempo dell’Argentinos

Un raggio di luce si accese a Villa Fiorito e, nel raggio, il bambino che eri fece numeri da circo col pallone del cugino Beto, e tutti vennero a vedere. Più di tutti, don Francisco Cornejo arrivò e vide. Era un impiegato del Banco Hipotecario Nacional di Buenos Aires e talent-scout di gambe e piedi promettenti di bambini, che scovava e fiutava nelle periferie, e disse: “Il nano è un fenomeno”. Tu eri il più piccolo di tutti.

E papà Chitoro ti portò a vedere la squadra del Boca con la maglia gialla e la striscia blu sul petto, ricordo dei colori della bandiera di una nave svedese approdata nel Rio de la Plata all’epoca dei pionieri. Fu un lungo viaggio in tram per arrivare in uno stadio straordinario e nel quartiere straordinario dei genovesi, la Boca dei “tanos”, il porto degli italiani, non solo liguri ma anche friulani e piemontesi, siciliani e cantastorie napoletani. C’erano le osterie delle pizze con cipolla e formaggio e l’impasto di ceci, e i murales delle coppie allacciate nel tango, case colorate e marinai, e il barrio Palermo con i palazzi eleganti e le leggende di coltelli e chitarre dei tempi del “criollo” Evaristo Carriego, il “poeta emaciato” che ispirò Borges, cantore del barrio che prese nome da un Dominguez Palermo, “siciliano di Palermo in Italia”.

Non erano cose che avevi appreso alla scuola “Remedios de Escalada de san Martin”, ma erano là a svelarti il mondo, perché Villa Fiorito era solo la periferia del mondo e ci arrivava appena il grande respiro di Buenos Aires. Quando entrasti alla “Bombonera”, con le tribune vertiginose, due posti con papà Chitoro in cima alla curva nord, scopristi la finta malandrina dei fianchi con cui Angel Clemente Rojas, un ballerino del pallone, ingannava gli avversari. Quella fu l’attrazione e l’ispirazione che ti sottrassero a una futura scrivania di ragioniere, eri bravo in matematica. Il pallone fu la strada della tua rivelazione, la ribalta luccicante del fùtbol sarebbe stata la scena delle tue meraviglie.

E così superasti le magìe dei fianchi di Angel Clemente Rojas giocando sul campaccio di terra battuta di Las Siete Canchitas, e poi tra i “pulcini” dell’Argentinos Juniors, tra i quali ti portò don Francisco Cornejo, e inevitabilmente nella prima squadra dell’Argentinos. Infine, destino di un amore forte, il Boca.

Ho visto il filmato del tuo palleggio infinito, raccattapalle dell’Argentinos ai bordi del campo quando, nell’intervallo di una partita di campionato, prendesti il pallone e, sotto gli occhi di meraviglia di don Yayo, l’uomo che su un camioncino trasportava i ragazzini del fùtbol dalle loro povere case al campo d’allenamento, iniziasti il palleggio senza fine, sinistro, testa, spalla, destro, esterno coscia, ginocchio, piede mancino, il pallone sollecitato a non toccare mai terra, e gli occhi divennero migliaia che si accorsero di te.

Tutti gli occhi dello stadio furono per il piccolo fenomenale palleggiatore, e centomila bocche, “olè, olè”, accompagnarono il tuo palleggio di meraviglia. La partita doveva riprendere e tu, quindicenne, stavi palleggiando da un quarto d’ora. Le squadre tornarono in campo per ricominciare a giocare, ma la folla ti urlò “rimani, rimani”, e tu continuasti, e la folla urlò “ancora, ancora”, ma l’arbitro ordinò il perentorio inizio del secondo tempo. Allora, smettesti e desti un colpo di tacco al pallone indirizzandolo col piede mancino a don Yayo che lo raccolse e sorrise mentre lo stadio emetteva un sospiro di stupore e letizia.

(3 – continua)

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