ilNapolista

Maradona è stato la nostra Natascia

Avere 14 anni e trovarsi la storia a casa, con un posto in prima fila. Vivere l’adolescenza con Diego e abitare di fronte allo stadio

Maradona è stato la nostra Natascia

 

“Dove abito io, dalle parti mie, ai Ponti Rossi, professo’ ce sta na femmena troppa bella, Natascia, tiene i capelli biondi. Con diecimila lire Natascia vi fa servizio completo, sopra e sotto. Mo, premesso che Natascia tene doie zizze tante, vulesse dicere a sti giovani moderni: ne’, strunz, con 200mila lire è meglio che te magne nu grammo ‘e cocaina o che ti fai un abbonamento completo addu Natascia?”

Ecco, Maradona è stato la nostra Natascia. Evitiamo paroloni roboanti come popolo, certamente Maradona è stato Natascia per quelli della mia generazione. Avere 14 anni, e ritrovarsi Diego Armando Maradona calciatore del Napoli. Avere 14 anni e ritrovarsi la storia a casa, con un biglietto in prima fila. Avere 14 anni e abitare in via Lepanto 105. Avere ormai educato l’orecchio a interpretare perfettamente i boati provenienti dal San Paolo. C’era il boato del gol, potente come un tuono. Il boato dell’occasione mancata, che partiva come l’altro ma si afflosciava seppur seguendo una curva sinuosa. In realtà soltanto in un caso dovevi preoccuparti: quando non arrivava nulla, quando imperava il silenzio. Era malacqua.

Questa educazione all’ascolto è avvenuta le rare volte in cui non trovavo un adulto con cui attraversare la strada ed entrare in quello che ai miei occhi è sempre stato il luogo più bello del mondo. Dove mi sentivo perfettamente a mio agio.

In quei sette anni, ovviamente, non ho mai avuto la possibilità di interpretare i suoni dal balcone dell’ottavo piano. Perché sì, noi abbiamo visto Maradona. La nostra Natascia. Ogni domenica. E pure i mercoledì. E qualche volta gli allenamenti i giovedì al San Paolo. Senza dimenticare il centro Paradiso.

La magia di Maradona, a essere precisi, era cominciata un mese prima del suo arrivo. Quando si andava ancora a scuola e passando davanti all’edicola c’era un titolo del tipo “Maradona vuole il Napoli”. Da allora, ogni giorno, quel giornale o quei giornali li portavamo con noi nello zaino. Nonostante per l’educazione di famiglia il calcio fosse comunque considerato l’oppio dei popoli. Ma insomma, la Rivoluzione può attendere. C’è Diego che vuole venire. Il Grande Timoniere avrebbe certamente compreso. Papà ogni tanto ci provava a fare i suoi discorsi terzomondisti. Mamma, comunista sì, impiegata all’Italsider pure, anche grande tifosa del Napoli, lo zittiva: “Sergio, abbiamo capito. Ma mo ce sta Maradona”.

L’annuncio di Natascia arriva quasi all’improvviso. Quando non ci speravamo più. Nelle tv private passava una scritta in sovraimpressione. Una roba del tipo: “Diego Armando Maradona è un calciatore del Napoli” e tre azioni tre del Barcellona mandate in loop. E guai a chi cambiava canale. Non era come oggi. Non c’era Internet. Bisognava aspettare il giorno dopo per avere notizie.

Il primo vessillo fu una bandiera con Maradona con le braccia aperte e i capelli fluttuanti. L’avevo fermata su un armadio e trascorrevo un bel po’ di tempo, la sera, ad agitarla. Così Maradona sembrava vero. Sembrava che esultasse davanti a me. Il secondo fu la musicassetta gialla di “Maradona è meglio ‘e Pelè” e “Il tango di Maradona”. Acquistate da Sandokan, lì, vicino alla Cumana di Fuorigrotta, sotto traversa San Vincenzo dove abitava mia zia Maria e anche la famiglia di Gaetano Musella. Sandokan era l’altra faccia di Ricordi, diciamo quella meno legata alla Siae per intenderci. Meriterebbe un articolo a parte.

Il 5 luglio al San Paolo non c’ero. Perché la presentazione venne spostata di un giorno. Avevo i biglietti per il 4. Ma il 5 era fissata la partenza per le vacanze. Mamma fermò la mia disperazione facendomi capire che avrei potuto giocarmi questo credito per l’abbonamento. E così fu.

A quel tempo, d’estate si giocava la Coppa Italia. Non c’era l’overdose di calcio. I gironi erano il primo calcio dopo mesi di astinenza. La prima partita ufficiale fu Napoli-Arezzo 4-1, Maradona diede spettacolo e segnò su punizione. Gli adulti partirono dal Cilento alla volta del San Paolo. Io niente. Avevo sempre quel credito da riscuotere. L’indomani li trovammo in spiaggia. Li avvicinavamo come si poteva avvicinare qualcuno che aveva visto il Soprannaturale, che aveva avuto una diretta testimonianza dell’esistenza di Dio. Il gesto che facevano, non appena gli si poneva qualche domanda, era portarsi le mani alla testa per poi agitarla lentamente da destra a sinistra e viceversa. Qualcuno si spingeva fino a sussurrare poche parole: “Nun se po’ spiega’”. E ti allontanavi fantasticando e pensando al giorno della tua iniziazione.

Riscossi il credito. Abbonamento dei Distinti. Con mio zio Augusto. La prima volta che lo vidi fu Napoli-Sampdoria 1-1. Allora era tutto diverso. Con un abbonamento entravano due quattordicenni. Non c’erano tornelli, steward. Si andava a occhio. Ti abbassavi un poco e si passava. Anche perché quando qualche addetto provava a opporre resistenza, il mormorio si trasformava rapidamente in accenno di protesta, un vago votta votta. “C’o fai vere’ o no ‘o nennillo?” dove il nennillo era Maradona. Non c’erano i posti numerati. Era un altro mondo. C’erano quei bellissimi gradoni di marmo. Dove si creavano almeno due file di persone. Per Napoli-Real Madrid quelle file divennero tre.

All’esterno c’era il meraviglioso carrettino di quel vecchio che issava il cartello: “È colpa tua se i figli non ti obbediscono, perché hanno troppi soldi in tasca”.

Dalla prima partita di Diego all’ultima, alcune scene divennero fisse. Immutabili. Due su tutte, che si ripetevano immancabilmente al momento dell’entrata in campo dei calciatori. Nulla di neanche lontanamente paragonabile a oggi. Potete serenamente accusarmi di passatismo. È come paragonare il whisky torbato scozzese alla coca cola sfiatata. Era un’attesa lunga, a volte lunghissima. Si entrava anche tre ore prima. Dipende dalle abitudini. Si giocava a carte, si chiacchierava, si ipotizzava la partita (ma allora di moduli non si parlava, tutt’al più di marcature), si mangiava, qualcuno portava le damigiane di vino e offriva a tutti. Era l’attesa di un evento straordinario. Ogni domenica. E quando la creazione era lì, a pochi minuti, le energie improvvisamente ritornavano. Tutti in piedi. Comincia lo spettacolo.

Allora la numerazione dei giocatori andava da uno a undici. E quando lo speaker annunciava le formazioni, ogni calciatore del Napoli era accompagnato da un olè. L’olè per il numero undici non è mai stato udito. Mai. Che si trattasse di Dal Fiume, Celestini, Caffarelli, Carnevale, Romano. A tutti toccava lo stesso destino. Mentre i bengala rendevano l’aria magnificamente irrespirabile. Quel sapore acre che ti finiva in gola, era poesia. Trombe, coriandoli. Era un matrimonio. Ogni domenica. Un matrimonio con i tamburi.

Entrati in campo, c’erano occhi solo per Diego. All’inizio, prima dei cori poi divenuti storia, ruggiva solo il classico “Diego! Diego! Diego!”, sempre più forte. Lui baciava in fronte Carmando. Poi si portava velocissimamente le ginocchia al petto e abbozzava una serpentina. E in quell’esatto momento, ogni volta, immancabilmente, come se ci fosse un accordo, spuntava una voce fortissima: “’O bbo fa’, ‘o bbo fa’” (Vuole farlo, vuole farlo, nel senso “è pronto, è carico, c’è”). E le persone si davano pacche sulle spalle, si caricavano a vicenda, stringevano pugni, urlavano, come se fossero state scosse da quella scarica elettrica. Era una sorta di haka di Fuorigrotta. Qualcun altro, non con la stessa costanza, gridava: “o ninnà”. Credo che stesse per nennillo, il bambino, el nino de oro.

Ma il rito non era completo. C’era un ultimo passaggio. Lo sfogo collettivo al primo fallo subito da Maradona. A quei tempi il calcio si giocava con le regole del calcio. Non del calcetto, come invece avviene oggi. Come ha ricordato Schuster, il rosso era solo per l’omicidio. Il fallo era sempre volontario. Gli avversari erano comprensibilmente angosciati. Non c’era altro modo di fermare Diego. Dovevi abbatterlo. E sul primo che lo abbatteva, si scatenava il momento d’odio del San Paolo. Era il terzo atto per scaricare la tensione.

Poco importa che quel Napoli fosse poca roba. Maradona ha giocato con De Vecchi. Con Penzo. Con Celestini (che con Diego divenne un buon giocatore). Il primo anno c’erano Bagni e Bertoni, oltre a Castellini, Ferrario e Bruscolotti. E un giovanissimo Ferrara che esordì contro la Juventus e marcò Boniek. Il primo gol lo segnò su rigore alla Sampdoria. Il secondo al Como in contropiede, la mise all’incrocio dei pali.

È vero quello che poi ha detto Diego, che anche quando si stava vincendo tre-quattro a zero, si alzava il coro: “Vulimme ‘o gol, vulimme ‘o gol, vulimme ‘o gol e Marado’”. Ma non perché non fossimo appagati, solo per il desiderio di concedergli l’ultimo, doveroso, tributo.

Aver visto Maradona vuol dire aver visto quel che nei servizi tv oggi non si trova. Ad esempio Maradona sulle rimesse laterali. La davano sempre a lui. Lo aveva richiesto espressamente: “non preoccupatevi se sono marcato, non importa”. Lui arrivava con almeno due persone addosso. Almeno. Uno gli teneva la maglietta, l’altro scalciava alla ricerca del pallone. Talvolta c’era anche un terzo che si agitava. Diego non se ne curava. Immancabilmente stoppava. Addomesticava il pallone. Poi o veniva messo a terra, oppure raggiungeva il fondo e crossava. Trovava sempre lo spazio. Sempre.

Poi ci sono gli stop sul rinvio del portiere. Qualche volta il pallone lo addomesticava col culo dopo aver fatto rimbalzare il pallone. O gli slalom, in genere – ma non sempre – quando eravamo in vantaggio. In rete se ne trovano sicuramente due. Uno alla Juventus in quel giorno della punizione. Venne abbattuto al limite dell’area, non ricordo se da Cabrini o da Scirea. Credo Cabrini. Sarebbe entrato in porta. E un altro contro l’Ascoli di Iachini il giorno in cui Italo Allodi venne colpito da ictus. Quando pioveva e uscì il sole e sul San Paolo comparve l’arcobaleno.

Cinque ore al San Paolo risucchiavano energie. Al fischio finale, ci si sedeva esausti. In genere, possiamo dire, quasi sempre felici. E al rientro a casa, ossia attraversando il marciapiede, nel palazzo scoprivi quelli che avevano la tua stessa malattia. Persone che vedevi raramente in settimana, in quel momento erano tuoi fratelli. Sorrisi, sguardi inebriati.

Del primo anno la partita più importante fu Napoli-Udinese. Eravamo messi male in classifica, in zona retrocessione. E soprattutto Bagni e Maradona non si prendevano. Rino Marchesi portò tutti in ritiro a Vietri sul Mare. La domenica faceva un freddo incredibile. Fu il giorno in cui bevvi per la prima volta il caffè Borghetti. Vincemmo quattro a tre su un campo impraticabile. Diego segnò due rigori al rallentatore.

Del secondo anno, ovviamente, Napoli-Juventus 1-0. Con Bagni e Brio espulsi. Bagni, ricordiamolo, è un pezzo del nostro cuore. E poi quella magia. Che vidi dalla Curva B dove mi trasferii dal secondo anno. Il mio accompagnatore cambiò: divenne Errico il fidanzato di mia sorella, altro malato vero. Quel giorno, Napoli-Juventus, fu come stare al largo dei Bastioni di Orione. Pioveva, e non c’era la copertura. Un silenzio irreale prima di quella punizione. Poi ci fu l’Aleph. Adulti inginocchiati sui gradoni bagnati, in lacrime. Persone senza parole, con gli occhi rossi. Ci si abbracciava anche per toccarsi, per sincerarsi che fosse tutto vero. C’era chi gridava senza sosta. Di fatto, gli ombrelli non si aprirono più. Quel giorno la memoria non ricorda i soliti marziani che lasciavano lo stadio in anticipo. Nessuno credeva che sarebbe mai successo. Fu la prima volta in cui qualcuno aveva mantenuto la promessa. Fu straordinario. La gioia dei poveri. La più sincera. Dopo, con lo stomaco pieno, non fu la stessa cosa.

Aver visto Maradona vuol dire anche essere cresciuti. Diego ci fece crescere con lui. Ci fece capire la differenza tra una stagione vissuta per battere la Juventus e una per vincere, per arrivare davanti a tutti. Primi. Capimmo quante sofferenze costava la vittoria. Ci addentrammo in un territorio per noi inesplorato.

Maradona non sprecava mai energie. Non perdeva mai tempo in azioni fini a sé stesse. Mai. Non conosceva la parola egoismo. Tutto aveva un senso collettivo. Ogni atto era finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo. Non fu tutto rose e fiori come oggi appare dai racconti. L’anno dello scudetto, Platini venne a giocare un partitone, non ne voleva sapere di abdicare. L’Inter di Trapattoni venne a fare zero a zero. Dopo il 3-0 subito a Verona si scatenò l’inferno. La paura di perdere. Che Diego scacciò con un gol incredibile al Milan, quando si mise il Vinavil sulla scarpa.

Nonno Vittorio, una vita per il Napoli e per il calcio, spesso mi diceva: “Che mazzo che hai avuto, noi abbiamo penato una vita intera per vedere tutto questo”. A 75 anni, febbraio 1987, entrò in sala operatoria per peritonite. Al chirurgo chiese solo una cosa: “fatemi vedere lo scudetto”. Gli fece vedere pure il secondo.

Maradona è stato la nostra vita. La nostra Natascia. Anche quando praticamente non giocava. È successo, ovviamente. E più si andava avanti, più volte accadeva. Anche quando pareggiammo 1-1 con l’Udinese il giorno dopo quell’annuncio in tv: «Il bambino si chiama Diego Armando, come suo padre». Anche quando, sempre con l’Udinese, rifilò quella testata a Criscimanni per un fallo ben più blando di altri centinaia che aveva subito e che avrebbe subito ancora.

Diego ci provò anche il primo maggio a resistere. Con un gol che non è passato alla storia solo perché perdemmo. La porta era sempre quella. Sotto la Curva A. Calciò non dalla parte sua. E fece passare il pallone sopra la testa di Gullit che saltò almeno mezzo metro. La mise all’incrocio dei pali. Giovanni Galli si appoggiò al palo e guardò i compagni come a dire: “Ragazzi, non si poteva prendere”.

Fu, il primo maggio, una dura mazzata. Soprattutto per quel che successe in quei giorni. Le voci messe in giro. Lo sciagurato comunicato. In tanti, non misero più piede allo stadio. Avvenne una mutazione dell’umanità da San Paolo. Quel giorno finì il primo Napoli di Maradona. Cominciò il secondo, con Crippa, Alemao, Corradini. Moggi era arrivato l’anno prima.

Diego era cambiato. Non era più il 24enne pieno di energie. Attorno a lui, il Napoli era cresciuto. La squadra era molto più forte. Non era più tutta la torta, anche se ovviamente era ben più di una ciliegina. Quando decideva di essere Maradona, si capiva subito. Come quando al Milan segnò di testa da fuori area. O, ancora, Napoli-Juventus ritorno di Coppa Uefa. Eppure quella sera, nessuno lo ricorda, il Napoli segnò il terzo gol – al 119esimo minuto – senza di lui. Era stato sostituito nei supplementari. Saremmo andati ai rigori senza Diego. Non ce ne fu bisogno. Il gol di Renica, uno dei momenti più belli di sempre, suggellò il concetto che il Napoli di Maradona era una squadra che temporaneamente poteva fare a meno di Maradona.

I più avveduti si resero conto che stavamo vivendo il declino. Certo, fossero tutte così i declini. L’anno del secondo scudetto Maradona si accese solo nel finale, col Mondiale alle porte. Quando sentì l’odore del sangue rossonero. Capì che avremmo potuto vincere. Come in una volata di ciclismo, la squadra lo aveva portato ai trecento metri e il suo sprint fu esplosivo. Una Goodwood calcistica. E chi scrive è moseriano.

La Supercoppa italiana fu il canto del cigno.

E quando successe l’irreparabile, a quell’ex 14enne innamorato tornarono in mente le parole che i suoi zii ogni tanto gli ripetevano: “Non t’abituare, non sarà sempre così”.

Da leggere anche:

Oggi il miele sommerge Maradona. Ma Diego è stato un leader politico profondamente odiato

Ferlaino, Kapadia e il desiderio di abbellire la storia tra Napoli e Maradona

ilnapolista © riproduzione riservata