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Per Djokovic in Italia scatta la polemica da moviola (con l’immancabile complottismo)

Il numero uno squalificato per una pallata a una giudice di linea. Il regolamento è chiaro, è da squalifica immediata. Ma sui social è partito il can can riservato al calcio

Per Djokovic in Italia scatta la polemica da moviola (con l’immancabile complottismo)

“Ha accentuato, ma a termini di regolamento il rigore si può dare”. Che poi non sia un rigore ma una squalifica, e quella a terra con le mani in faccia non sia un attaccante in preda ad una simulazione improvvisa bensì una giudice di linea colpita alla gola dalla pallata di stizza del numero 1 del tennis mondiale, poco importa. Siamo corsi d’impeto alla nostra var casalinga, tra il tinello e la parete attrezzata, per rimandare al rallentatore il riflesso filmato dello scandalo: Djokovic che abbatte una povera donna, una delle pochissime anime presenti all’Arthur Ashe, il campo centrale degli US Open senza pubblico. Per finire espulso e squalificato, condannato con rito abbreviato alla gogna mediatica.

Il mondo intero (o almeno quella parte perversa che guarda il tennis a dispetto dei fusi orari) s’è catapultato sui social a sdegnarsi per il comportamento di Nole, o anche solo a sorprendersi incredulo di un tale epilogo, ma in Italia no. In Italia abbiamo allestito il processo agli ottavi di finale: moviole, arringhe, maschilismi – LA giudice, cose dell’altro mondo, appunto – e tutta la grammatica della polemica. Senza certezze, vibrando i colpi della discussione proprio dove mai i naif del tennis regolamentare s’erano potuti arrischiare: era intenzionale? L’ha fatto apposta? Ma no, non voleva, dai… esagerati!

Un tic. Un’automazione della nostra natura di sportivi complottisti.

Frivolezze da calciofili isterici che di solito il tennis non conosce. Sono quegli zoticoni tifosi del calcio che per giorni s’accapigliano su un fallo fischiato o meno, sulla volontarietà dei gesti, sulle mamme degli arbitri. Nel tennis no. Esiste banalmente un regolamento, manualistica e linee guida che nel caso specifico recitano così:

regolamento tennis

Quando sul 5-4 Carreno Busta aveva appena recuperato 3 palle break e piazzato una smorzata da 40 pari, Djokovic aveva sparato la prima pallata rabbiosa contro i teloni. Nessuno aveva fiatato. Poi però va alla battuta e commette doppio fallo, scivola e sbatte con la spalla, si ferma per un check medico, torna in campo e sullo 0-30 ecco la seconda pallata di stizza. Stavolta colpisce la sventurata giudice di linea. Il succitato regolamento non ammette alcuna discussione. Nole chiede scusa, prova a convincere il giudice arbitro, poi saluta, e se ne va, espulso, squalificato e mazziato: “perderà tutti i punti in classifica guadagnati agli Us Open e sarà multato per il premio in denaro vinto al torneo oltre a qualsiasi o tutte le multe imposte in relazione all’incidente in questione”, reciterà poi il comunicato ufficiale dell’USTA.

Ma nel frattempo, in Italia, complice la seconda serata orfana di campionati e salotti tv senza giacca, eravamo già al passo successivo, pressoché inedito all’estero: la rissa social, l’indignazione un po’ qua un po’ là, i pro e i contro, i nolisti e i terrappiatisti (sì, pure loro, perché quando il topic è Djokovic sui social scende in campo una strana mescolanza di sottotipi: dal novax al nomask al vegano purificazionista). “Ma un po’ di elasticità, suvvia”, e giù a cascata ulteriori 134 notifiche sul gruppo whatsapp “gli amici del tennis”.

Quel che altrove è considerata un’evidente correlazione di causa ed effetto – colpisco non intenzionalmente un’altra persona quando il regolamento esplicitamente vieta di colpire un’altra persona non intenzionalmente, e quindi vengo espulso e squalificato – non si sa come, in Italia è trasceso. Ha preso a curvare verso l’opinionismo agonistico, dove s’innesta il dubbio anche quando non c’è, e le certezze si inchinano all’ennesimo “secondo me” non richiesto. Il tennis trattato come l’ultimo moviolone di Biscardi, come se lo psicodramma settimanale della var che vede e non vede spesso a capocchia possa trasferirsi nel preciso e metodico mondo dell’occhio di falco. Dove nel regolamento c’è una sola frase, secca, composta da tre vocaboli (più una parentesi) – “unintentionally hitting someone (injuring)” – e guarda un po’ proprio quella viene a tradursi nella realtà. Senza distinguo infiniti, aree costruite sulle ipotenuse dei gomiti dei difensori, volumi corporei espandibili e discrezionalità varie.

Con la deriva ovvia, quasi fisiologica, del retropensiero automatico: “ecco, l’ATP vuole farla pagare a Djokovic per la vicenda del torneo untore nei balcani, hanno colto l’occasione”. Gli US Open sono un torneo ITF, ma non importa: sono sigle, non contano. E se la regola è chiara, e non interpretabile, beh, allora è la regola ad essere sbagliata, scomoda, non ci piace l’amma cagnà.

È più forte di noi. L’irresistibilità della caciara, la maltolleranza delle leggi, che vanno arrotondate, accomodate fino a farne poltiglia buona – appunto – per le mille interpretazioni che le disinnescano. Ammettere che se una cosa non si può fare, non si può fare e basta proprio non ci appartiene. Misuriamo il danno, l’intensità del dolo, il contesto, le motivazioni, in un’orgia di attenuanti e aggravanti che invece potrebbero stare a zero, come le chiacchiere.

 

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