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Con i social il calcio ha smesso di renderci spettatori felici, ci sta peggiorando la vita

Le piattaforme social hanno completamente imbrigliato in un mare di guerre per bande l’intero commento sul mondo del pallone

Con i social il calcio ha smesso di renderci spettatori felici, ci sta peggiorando la vita

Tra qualche mese saranno passati due anni dall’inizio del mio percorso di disintossicazione dai social media. All’epoca, da attivissimo utente della prima ora della rete, decisi di provare a cancellare tutti i miei numerosi account presenti sulle maggiori piattaforme (Facebook, Twitter, Instagram) perché avevo l’impressione che il bilancio tra la produzione di interessanti spunti di riflessione e quella di tossico percolato umano pendesse ormai da tempo nettamente a favore della seconda: la storiella che mi raccontavo sui social che mi aiutavano a tenermi in contatto con il resto del mondo era ormai ridotta a una misera foglia di fico.

L’anno successivo ho così deciso di estendere l’esperimento demolendo il mondo dell’informazione che, nel tempo, mi ero costruito attorno. Tale risistemazione mentale ha incluso una cosa cui tenevo e tengo molto, ovvero il calcio: l’idea era smontare la mia prospettiva sul pallone e sul Napoli costruita, quotidianamente e col mio permesso, a mio uso e consumo, dalla rete, rimuovendo tutte le fonti di informazioni mediate da sistemi che gestissero il mio feed di notizie – testi, audio e video – tramite algoritmi a me ignoti. Così ho abbandonato Google e con esso la sua personalizzazione del mio newsfeed e i consigli donati al mio account YouTube che si traducevano costantemente in una pioggia di filmati che consumavo nelle ore a valle di ogni partita. Ho provato a sperimentare, in sostanza, il cosiddetto diritto all’oblio. Non per un piglio rivoluzionario ma perché mi sentivo inutilmente triste. Temevo sarei rimasto isolato, invece è andata molto diversamente e oggi ho qualche riflessione da fare.

La prima è che, da poweruser di quell’universo, mi ritengo un ex drogato del mondo social: uscirne è un percorso che non termina mai perché affronta una dipendenza che sfrutta una o più debolezze umane. Nessuno si illuda di avere un rapporto part-time con il flusso costante di informazioni: ogni stimolo che proviene dal nostro dispositivo mobile brucia risorse mentali, che non tornano. È una legge della termodinamica. Dovendo individuare un evento scatenante nel tempo, credo che il mio isolamento sul web abbia iniziato a coinvolgere il calcio allorché, circa un anno fa, andai a vedere Slavia Praga – Barcellona a bordo campo (ne scrissi anche per il Napolista). Pagai quel biglietto un’autentica fortuna e Messi e Suarez, a una manciata di metri di distanza da me, furono gli inconsapevoli artefici di un’esperienza iniziatica atroce: in quell’ora e mezza sperimentai con orrore l’incomunicabilità tra ciò cui stavo assistendo e quanto tutti avremmo discusso da casa un attimo dopo il triplice fischio dell’arbitro. Poche volte ho provato, in vita mia, un simile senso di tremenda assurdità e di insensatezza.

C’è qualcosa che riguarda il calcio che è molto peggiorato nell’ultimo decennio. Si è deteriorata la sua principale arteria, ovvero la percezione che ne abbiamo e che costituisce il suo indotto umano e culturale: questo sport genera sempre meno racconti, produce sempre meno mondi e ogni giorno presta un po’ più il fianco ad un giornalismo che mai è risultato così tenacemente impreparato e culturalmente scadente. Soprattutto, ho notato, il calcio ha smesso di renderci spettatori felici: ci svuota, ci divide, stimola le nostre ansie peggiori. Non basta più la retorica dei danari che tutto inquinano a dar conto delle evidenze nuove cui oggi assistiamo. C’è dell’altro, c’è un sistema che è vittima per la prima volta di forze centrifughe devastanti che lo rendono completamente polarizzato e polarizzante, trasformandolo, per la prima volta nella sua storia, da cura per la vita a fenomeno alienante. Dobbiamo pur fermarci, un giorno, e riflettere sul fatto che il calcio ci sta peggiorando la vita, ci guida a velocità impressionante verso un disastro di sentimenti, incancrenisce problemi, segrega. E non sono i soliti ultrà o la consueta vita moderna il problema. Siamo noi.

Non può sfuggirci tutto questo e la sua novità. Non può non essere limpido ed evidente che le piattaforme social hanno completamente imbrigliato in un mare di guerre per bande l’intero commento sul mondo del pallone, dettando l’agenda a tutto il sistema: dalle società agli spettatori, dai giornali agli organi di stampa online, ivi compresi i network televisivi. Non so se è chiaro, ma ormai le stesse politiche societarie dei club più importanti sono influenzate dalla cosiddetta voce dei social e si sviluppano in risposta a questa entità indefinibile ma, evidentemente, potente. Il web appare il luogo accogliente dove formare tutte le nostre opinioni poiché la sua porta di ingresso è costantemente aperta e non prevede oneri, nascondendo la verità del suo modello fondativo che prevede che, mentre i clienti veri sono gli inserzionisti, il prodotto reale sono i tifosi, gli spettatori, in ultima analisi sono i singoli individui. Siamo noi. Per generare un humus fertile in noi (prodotto) per i propri clienti (le pubblicità), le piattaforme social devono generare ansia, disconforto, tristezza, sentimenti che inducano ad un uso immediato e compulsivo di questi sistemi, esattamente come avviene con qualunque tipo di droga. Il calcio dell’ultimo decennio è dunque dopato ma il problema non sono i calciatori e l’efedrina, ma siamo noi spettatori: siamo apparentemente liberi di chattare del fantamercato o creare il gruppo di tifosi amici, senza spendere un centesimo, solo perché a connetterci in rete, a gestire queste relazioni virtuali su Google, Whatsapp o Facebook sono scatole chiuse pagate da entità terze che comprano la certezza di modificare, ogni giorno un po’, il nostro comportamento sociale. Sono aziende che hanno il loro core business in una attività manipolativa cui siamo totalmente assuefatti.

Non è un film complottista, è quanto la letteratura tecnologica e scientifica già documenta da tempo, in modo chiaro, limpido ed ufficiale. A tale riguardo consiglio caldamente la lettura di un libro che ho avuto il piacere di leggere ultimamente, Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, di Jaron Lanier – un signore abbastanza conosciuto nella Silicon Valley, che lavorò per un po’ anche per Marvin Minsky, non proprio l’ultimo arrivato nel campo della cibernetica. Ancor di più consiglio il docufilm Social Dilemma, in questi giorni disponibile su Netflix. Gli autori (un tempo software director, designer, executive delle maggiori aziende del settore) spiegano in modo assai particolareggiato le dinamiche perverse alla base del modello di business dei principali attori economici della rete. Diventa dunque chiaro che essi abbiano potuto facilmente ottenere, nel mondo del calcio, quanto hanno già ottenuto in contesti ben più complessi – la nostra società civile, le nostre democrazie, i nostri sistemi di valori umani.

Se analizziamo alcuni nodi polemici nella discussione pallonara e proviamo ad usare la prospettiva del modello di business dei social, diverse cose iniziano ad avere un senso.

Prendiamo a prestito il cosiddetto scontro cittadino tra papponisti ed anti-papponisti. A Napoli, storicamente, tale conflitto sportivo e culturale non coincide con l’alba dell’era De Laurentiis. Strano, no? L’inizio del nuovo corso della squadra partenopea, anzi, fu accompagnato da un forte calore di pubblico. Ci è sfuggito che la virulenza che conosciamo oggi nasce e cresce soltanto in un secondo momento e coincide abbastanza bene con l’adozione pervasiva dei social. Quanto più le persone hanno avuto accesso alle piattaforme di comunicazione, tanto più alto è stato il livello di letame che tutti siamo stati disposti a spalare. Mentre esistono certamente ragioni storiche, culturali e sociali alla base dello scontro papponistico cittadino, si stenta a dare una ragione organica a questo indiscutibile mutamento nelle dinamiche del tifo azzurro.

Napoli (che pure ha conosciuto retrocessioni, fallimenti, scudetti persi nelle ultime tre giornate) non è mai stata così polarizzata questo è un fatto incontrovertibile – ed il problema è che, immersi nel plasma del social, non ne vediamo gli effetti e finiamo col creare sovrastrutture di significati ed interpretazioni: il problema diventa di volta in volta il vomerismo, il plebeismo, il romanismo, il radical-chichismo, la conduzione familistica, il rischio d’impresa, il tecnico troppo (poco) titolato. Ciascuno ha una interpretazione a proprio uso e consumo perché ciascuno ha il proprio feed di notizie personalizzate. Il flusso di informazioni è controllato, nella cronologia e nella priorità, dagli algoritmi dei social media il cui solo obiettivo è creare engagement – che è la parola di moda per indicare ciò che un tempo si chiamava dipendenza; il suo fine è dirottarci verso quanto ci smuove nell’immediato, ci indigna, ci corrode, stimola in noi reazioni violente, nel brevissimo termine. Tanto è vero che i papponisti sono avidi lettori degli anti-papponisti e viceversa, un dato reale di cui nessuno sa darsi spiegazione. Le notizie che leggiamo sono costruite per farci sentire accerchiati, per spingerci in un angolo e promuovere l’idea di essere solitari odiati o geni incompresi perché, più il campo è diviso, più chi paga (ossia il committente pubblicitario) ha garanzia che si possa mutare il comportamento di un numero considerevole di persone.

Il mutamento sociale, difatti, è avvenuto.

Lo stadio ormai vuoto da anni è la sua cattedrale. Ci arrovelliamo tutti nel tentativo di darne una spiegazione socio-antropologica ma, con un po’ di onestà, dobbiamo riconoscere che nessuna di esse appare solida. La partita di calcio equivale, per ciascuno di noi, formatosi in questo universo manipolato, ad una seduta riabilitativa e ad essa opponiamo la resistenza che esercita chiunque abbia una tossicodipendenza. I novanta minuti sono una crisi d’astinenza, probabilmente la stessa che ho provato la sera di Slavia Praga – Barcellona e che ho definito con “straniamento”. Per questo le persone la rifuggono, la mal tollerano o addirittura non la comprendono.

Siamo dunque destinati allo sfacelo?

Rimanendo immobili, sicuramente sì. Altrimenti, molto si può fare.

Anzitutto, come suggerisce Lanier, si può iniziare col cancellare tutti i propri profili social. Non è un atto oscurantista, ma una presa di responsabilità verso ciò che amiamo: nessuno vuole la distruzione della tecnologia che ci ha permesso di continuare a vivere lavorare e comunicare in presenza di una pandemia. Ciò che si vuole stimolare è un cambio del modello economico alla base di gran parte di essa, perché quello attualmente in uso non funziona e non è l’unico possibile.

Iniziamo a notare che, nell’ultimo decennio, le nazioni che (calcisticamente) si sono rinnovate più di altre in modo sistemico e sistematico – come la Germania – sono quelle che, avendo vissuto sino in tempi recenti il dramma dello spionaggio e del tracciamento delle vite delle persone, sono abitate da cittadini che hanno rapporti relativamente limitati con il mondo dei social media. È difficile che chi abbia conosciuto la Stasi sia ben disposto a postare la propria vita online a cuor leggero. In Germania gli stadi sono pieni e le squadre vincono Champions League e Campionati del Mondo.

In secondo luogo, ciascuno di noi deve investire qualcosa in più: bisogna imparare a pagare e a rifiutare quanto viene gratuitamente offerto. È necessario, anzi, pretendere di pagare i contenuti e pagarli in modo proporzionato a quanto ci offrono. Rifuggendo la gratuità stabiliamo che ciò che funziona senza costo apparente si basa su un meccanismo occulto che è pericoloso e ci peggiora, come tifosi e come esseri umani. La gratuità ha portato alla morte del giornalismo sportivo, generando redazioni di precari che hanno costruito notizie ancor più precarie; essa ha poi contribuito alla soppressione delle passioni e dell’amore che questo sport deve nutrire. Usciamo dal sogno del pezzotto come arma sovversiva: solo quanto paghiamo, e paghiamo caro, ha un peso nella nostra vita ed è dunque da noi controllabile e decidibile, alla luce del sole. Ammirare Messi a pochi metri può cambiare l’esistenza e, per ciò che ha il potere di farlo, alcune centinaia di euro sono un prezzo equo.

Ancora: investiamo tempo e risorse nella ricerca e nella scelta delle fonti. Non c’è bisogno di essere imboccati da un sistema terzo per stabilire cosa valga la pena della nostra lettura: impariamo a selezionare ciò che può interessarci, troviamo una nostra comfort zone e poi decidiamo, con una certa cadenza, di abbandonarla per esplorare il campo nemico con qualche curiosità. E facciamolo con parsimonia: due, tre notizie al giorno sono già tante, se scegliamo fonti di qualità. Non è necessario averne di più. Nel mondo, anche quello calcistico, accadono poche cose realmente interessanti in un giorno.

Il fatto che non si sia investito in una “scugnizzeria” è tutto sommato un bene. Facciamoci qualche domanda sulle famigerate scuole calcio: è necessario averne così tante? Quando, trenta e passa anni fa, frequentavo il ginnasio a Napoli, facevamo due ore di palestra alla settimana allo stadio collana, in condizioni pietose. Oggi pare che dobbiamo essere felici perché, nel 2020, a Napoli ci sono otto istituti che non hanno una palestra e portano settemila studenti nella medesima struttura. Può definirsi questa una società civile? Non dovrebbe, una città di questo secolo, avere spazi liberamente accessibili in cui i ragazzi possono andare autonomamente a giocare a pallone, auto organizzarsi, senza vivere con la spada di Damocle di orde di genitori che pianificano le loro vite sulle chat di mamme e papà?

Infine: proviamo a vivere il calcio per novanta minuti alla settimana. Se, in tempi di pandemia, non possiamo andare allo stadio, seguiamo una partita nel confine tra il fischio d’inizio ed il triplice di chiusura. Il bar dello sport ha senso solo se non è una azione costante e perpetua che ha l’unico potere di esasperarci. Lo sport è un divertimento elevato a scuola di vita solo se non è schiavo di una ottimizzazione di tempi e pensieri. Il meglio del pallone, da sempre, non ha mai avuto una ragione razionale precisa. Quando ci sembra che inizi ad averne è il segnale che qualcun altro ci sta lucrando.

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