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A bordocampo di Slavia-Barcellona ho visto gli atleti, la battaglia. In tv è un altro sport

Guardare la partita lì è la discesa in un girone dantesco. Sul prato di gioco si celebra un massacro. In tv, invece, lo stadio, che mi era parso un covo, appare profondo e largo

A bordocampo di Slavia-Barcellona ho visto gli atleti, la battaglia. In tv è un altro sport

Lo scorso mercoledì sera ho vissuto una visione o forse ne sono stato io stesso una.

Un collega di ufficio a Praga mi propone la missione impossibile: compriamo due biglietti e andiamo a guardare il Barcellona dare spettacolo nello stadio dello Slavia. Entertainment. Questa è la parola chiave. Nasce in me un dubbio abissale immediato – il Napoli sarà in contemporanea a Salisburgo nella gara finora più importante della stagione. Ma decido di seguire un presagio, o forse è lo stesso presagio a decidermi. Poche ore e ci ritroviamo a bordo campo dell’Eden Arena ad osservare a cinque metri da noi Messi e Suarez palleggiare in riscaldamento.

Mi sento immerso nelle acque dense di un profondo straniamento. Per cento minuti e rotti avrò la sensazione costante di essere in un altrove. Quando il dieci argentino va a segno dopo qualche minuto, il tabellone luminoso che galleggia tra i cori incessanti dei ventimila slavi indica che Haaland ha portato in vantaggio (poi annullato) i padroni di casa a 280 chilometri a sud da noi. Non ricordo di aver provato alcun dolore. Forse alcuna emozione. Una assenza sentimentale che mi ha fatto riflettere sulla sostanziale mancanza di senso di buona parte di quanto discutiamo attorno a questo gioco.

L’esperienza a bordo campo è la discesa in un girone dantesco. Sul prato di gioco si celebra un massacro. Sulla fascia sinistra, dove siedo a pochi centimetri dalla panchina comandata dal mister Trpišovský, Griezman vince un duello e compie un allungo. I giocatori sono di una bellezza olimpica. Da vicino scompare ogni dubbio e appare finalmente ovvio che lo splendore di questi ragazzi possa conciliarsi esclusivamente con lo splendore di altre ragazze – i danari c’entrano, ma relativamente. I danari sono la merce di scambio spicciola del nostro cianciare su di loro ancora più spicciolo. Da qui si percepisce la fatica titanica, lo sforzo dei tessuti, delle articolazioni che trasecolano. Messi ne salta un paio, poi in uno spalla spalla crolla a terra: dalla mia postazione si riesce a sentire il colpo tra i due che detona come una bomba. È una battaglia sanguinosa, di mille storie uno-contro-uno intrecciate, di grida lanciate dagli allenatori e dagli assistenti, di arbitri che stanno in silenzio e poi ammoniscono per cercare di tenere le fila fin dove possono.

A Salisburgo un’eguale battaglia si sta dipanando, stesso tempo ma luoghi differenti. Mi viene in mente la sincronicità di Jung, credo di averne letto in un libro quasi mistico – Psiche e natura di Wolfgang Pauli, il geniale fisico tedesco che per qualche coincidenza legò parte del suo lavoro allo psicanalista. Eventi sincronici sono quelli che non hanno nesso causale ma avvengono nello stesso tempo e mantengono un significato simile, un eguale stato mentale. Non ne sono certo, ma sono nel mezzo di qualcosa di mistico, quale il gioco del calcio dovrebbe essere – rafforzato dall’ulteriore ironica coincidenza per cui io e il mio collega veniamo avvicinati da un’altra coppia di spettatori che hanno esattamente gli stessi nostri biglietti, medesima fila, medesimo numero. Non sappiamo come sia possibile. Sappiamo solo che in quattro non possiamo sederci su due seggiolini. Sorrido perché mentre la partita viaggia e lo stadio ruggisce, noi quattro ci troviamo a sperimentare da vivi ciò che le particelle elementari sperimentano seguendo proprio il celebre principio di esclusione di Pauli. E forse Pauli non conosceva i bagarini.

A bordo campo la realtà ci sovrasta. Mi trovo a pensare che il motivo per cui falliamo quotidianamente nel tentativo di comprendere il senso della necessità del sacrificio è che questa cruenta guerra, fisica e psicologica, che ci travolge adesso come un’onda emotiva, viene filtrata agli spettatori migliaia di volte. Persino sugli spalti. E cresce in me un senso gigantesco di rispetto e gratitudine per questa manciata di volontari che si gettano nella mischia, ad ogni incontro, con la forza interiore dei martiri, dei testimoni dell’esistenza. Se siamo vivi è perché Insigne, altrove, ha superato un ostacolo, ha gridato il dolore, ha assaporato la gioia, ha preso tra le mani la testa del suo maestro che, sepolto tra un groviglio di braccia, continua a gridargli le istruzioni – “Te l’avevo detto!”.

Di tutto questo romanzo epico noi, poveri osservatori, stipati sotto decine di strati di astrazione, non tocchiamo niente. Quanto torno a casa la mia prima curiosità è rivedere il match in televisione. Tornare nello stato catatonico dell’entertainment. Non distinguo nulla. Lo stadio, che mi era parso piatto e stretto, un covo, un pistone di un motore in marcia, appare sullo schermo profondo e largo. Non riconosco neppure i giocatori e la loro forza atletica. Il commentatore, d’un tratto, parla dei moduli. Il codice del nostro disfacimento. L’esterno largo. Il quinto di centrocampo. La sottopunta. Mi viene in mente il palleggio tra Messi e Suarez, ho ancora un’eco della voce squillante di Trpišovský che, sull’ultimo fallito tentativo di riequilibrare la gara, si inginocchia sul prato e si dispera e tutta la nostra lunga teoria sui sistemi calcistici mi sembra una montagna di carta straccia. Di cosa parliamo, cosa commentiamo, in quale recinto di disperati vogliamo costringere questo enorme romanzo calcistico illudendoci di usare la grammatica dei vertici alti e i vertici bassi. Pur di non abbracciare la realtà, pur di non raccontarla e di non ascoltarla, in silenzio, abbiamo creato una intera grammatica e una ancora più enorme sintassi per sostenere un immondezzaio privo di senso. Il calcio è diventato inutile come qualunque altra teologia.

La partita a Praga si chiude. Lo Slavia perde 1-2. Ha combattuto strenuamente su ogni contrasto ma non c’è stato verso di ricacciare la sconfitta. I padroni di casa si inginocchiano davanti alle gradinate, i ventimila li battezzano in un canto che non comprendo ma che appare mistico. Il mio collega ha sofferto, ma non è disperato. Probabilmente perché ciascuno di noi ha assorbito il dolore di questi novanta minuti, trasformati in arte per questo stato di grazia chiamato pallone. Eravamo entrati con la superficialità di chi cerca lo spettacolo e guarda distrattamente per togliersi la curiosità sul modulo scelto o l’undici titolare. Usciamo da questo luogo avendo la sensazione di aver ricevuto in prestito più vite, di essere morti anche noi sul campo e poi risorti, come avveniva un tempo sulle are sacrificali. Quando a cantare gli eroi erano i poeti e non dei microfonati.

Wolfgang Pauli avrebbe tirato fuori la sua famosa frase, diretta al suo amico e collega Paul Dirac, geniale padre dell’antimateria: “Non esiste alcun dio, e Dirac è il suo profeta”. Anche noi crediamo che non esista alcun dio. E che la pelota sia la sua profetessa.

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