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Dai soldati sul Piave all’Atalanta: l’Italia è un Paese fondato sulla retorica

Tutto deve essere iperbole, nel bene e nel male. Almeno nel racconto. Nella realtà, invece, si è tornati a odiare serenamente.

Dai soldati sul Piave all’Atalanta: l’Italia è un Paese fondato sulla retorica

Siamo sempre stati un po’ così, ossessionati dall’iperbole, romantici fino al vomito, raggomitolati ad una storia che avesse tutti toni a posto: il buono, il cattivo, il bene, il male, la sventura, il lieto fine finché morte non ci separi. E pure la morte, quando ci cade in testa, serva di lezione. Ne traiamo una morale. Caressa che urla come un invasato “De Rooooon”, “Freuleeeeeeer”, facendo il conto alla rovescia dell’impresa, è finito sfottuto dalla sobria stampa tedesca. Cos’era quella sceneggiata, quella retorica della “resistenza”, della “sofferenza”. Era solo una partita di calcio, scrive la Suddeutsche Zeitung. Sono così tedeschi, i tedeschi quando si atteggiano a tedeschi. Che tenerezza.

Il racconto del prima e del dopo – ma come dicevamo anche del durante – di Atalanta-Psg è in realtà Italia in purezza. Parolaia, cialtrona, smielata, ampollosa ed enfatica. Persino questa stessa descrizione lo è, non se ne esce, ci siamo dentro tutti. Da sempre. I soldati bloccati sul Piave, o in fuga per la valli da Caporetto, quelli che pesavano 45 kg e s’ammassavano per anni in trincea, leggevano (chi sapeva farlo) sul Corriere della Sera il grande inviato di guerra Luigi Barzini. E lo odiavano a morte. Lui e le sue cronache dal fronte farcite di epica, periglio e coraggio. Se avessero avuto internet e i commenti, nel 1917, i nostri bisnonni avrebbero preteso il licenziamento in tronco di Barzini. Raccontava (meravigliosamente) frottole: quelli morivano nel fango, di fame, altro che vessilli svolazzanti al tramonto. I fatti, la realtà, non erano – diremmo oggi – “instagrammabili”.

Voi credete che il trauma dei camion dell’esercito che lasciano Bergamo pieni di cadaveri sia stato processato come tale? Magari con un po’ di rispetto, sottovoce, gli occhi bassi a terra. Il silenzio, la buona educazione del contenerci, dell’evitare di ricamarci troppo? Macché, ci sono caduti tutti. Persino il New York Times ha scritto della “favola”, non c’era speranza che da noi si elaborassero quei lutti per sottrazione.

La sconfitta dell’Atalanta non è passata invano. Ha rimesso il Paese sul binario di sempre. Un giorno siamo affacciati al tinello cantando “abbracciame”, a ricordare al dirimpettaio che “ne usciremo migliori”, il giorno dopo siamo fuori ad un aeroporto a farci insultare (“terrone di merda”) da un dirigente dell’Atalanta – si quelli della “favola” – quello dopo ancora in chat a godere dell’eliminazione della suddetta favola. “I bergamaschi devono morire!”, scritto in caps-lock, buttato lì senza pensare che nei mesi in cui eravamo tutti più buoni i bergamaschi s’erano portati avanti, ecco.

Il disprezzo è tornato quello di sempre. La vita pure, a dispetto del virus, della pandemia, delle terapie intensive e del senso del ridicolo. Ma la retorica no, s’è aggiornata nel frattempo. Ed è partita per la tangente, continuando a raccontare un regno di Fantasia nel quale un giornalista chiede a Gasperini se è contento che tutto il Paese tifi Atalanta manco fosse la Nazionale, e l’improvvido risponde che “beh, sì, mi fa piacere”. Il giorno dopo il virgolettato passa a lui per traslazione e diventa “Tutti tifano per me, che bello”, più o meno. Il tranello era nella domanda, nella risposta che avrebbe provocato, e nelle reazioni stizzite di mezza Italia che manco per sogno tifava Atalanta, e glielo avrebbe poi fatto capire in vari modi, tutti piuttosto espliciti.

La retorica ha stravolto quella partita, costruendoci una sovrastruttura di cuoricini funzionale solo al perpetuarsi della stessa litania, peraltro insopportabile. Che Gasperini – al di là dei suoi enormi meriti sportivi – sia più o meno da sempre antipatico a buona parte dei tifosi italiani (che ancora gli rinfacciano la sua nascita juventina, per dire), e che all’Italia che s’assembra sotto l’ombrellone dello shock dei morti nelle provincie lombarde non freghi più nulla, non è importante. Non vende copie che comunque non si vendono più. Lo storytelling – proprio così – punta sull’Italia caritatevole, il senso di rivalsa, l’unità nazionale. Sempre la stessa solfa.

La temperatura reale dell’emotività è scritta su Whatsapp al secondo gol del Psg, riassunta nelle mille trasposizioni dialettali e regionali dell'”afammok!”. Quella percepita invece è raggelante: “Peccato”, il titolone unico del Corriere della Sera, che manco a i dirlo i tedeschi bulli hanno registrato per sfotterci un altro po’.

Dopo Atalanta-Psg l’Italia s’è desta, finalmente: cattiva, cinica, livorosa come ha sempre usato. I buoni erano buoni anche prima, solo che adesso affollano i nostri sensi di colpa col dito puntato: dovevi tifare Atalanta, bastardo! Il calcio è sempre lo stesso, i tifosi ora sudano sul divano ma non siamo mai cambiati. E’ la retorica che non se n’è ancora accorta. Siamo fermi alla panificazione del sabato.

 

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