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Lo storytelling napoletano della vicenda Lozano (poi c’è la storia reale)

Prima non gli passavano la palla, ora sarebbe accettato dallo spogliatoio. Ovvio: prima era un’insidia per i senatori; ora, dopo la restaurazione, è un comprimario trattato da ragazzino

Lo storytelling napoletano della vicenda Lozano (poi c’è la storia reale)

Oggi è un giorno di deamicisiana serenità. Il giorno in cui un discolo ragazzino dal viso sporco, venuto da lidi lontani ed inesplorati, si è finalmente inserito. Ha superato le inevitabili barriere culturali. Terminata la scuola di inclusione, Lozano è stato accettato dallo spogliatoio. C’è di che essere lieti.

Siamo finalmente tornati all’ovile, protetti dall’egida dei buoni sentimenti, dal bastone severo ma giusto dell’uomo forte in panchina e dal calore umano della città più inclusiva al mondo, ora anche negli spogliatoi.

Lungi da noi, quindi, voler guastare il quadretto d’insieme. È solo che non sembra difficile avere un po’ di memoria e un paio di occhi per guardare, magari con l’aiuto di qualche parola dei diretti interessati. Farsi tornare alla mente il giocatore messicano segnare a inizio stagione senza ricevere abbraccio o rimanere inspiegabilmente escluso dalla manovra e persino da qualche facile passaggio. Magari capire che Lozano – che tra l’altro un po’ se l’era cercata, non essendo atterrato a Capodichino tra le necessarie fanfare dell’amore per la mozzarella e il proverbiale desiderio del suono del mandolino – non era esattamente un comprimario, nell’idea originaria del precedente allenatore, ma un tassello funzionale ad una squadra diversa, che potesse in parte scalzare le certezze granitiche di quella attuale: cambiare i “senatori” prima che essi potessero prendere il comando di tutta la baracca. Prima che il sangue marcisse. Come infatti è puntualmente marcito.

Insomma Lozano era, per alcuni versi, il sostituto di Insigne, colui che ha onestamente confessato che (col debito rispetto che si deve ai più anziani, si capisce) aveva consigliato al tenero Ancelotti di usare il frustino, perché in città ci vuole chi ti grida di metterti le mascherine, chi ti grida di passare quando scatta il verde e chi ti grida di tornare a coprire in difesa, altrimenti l’amore non scocca (e chi siamo noi per condannare la nobile arte del masochismo?).

Ora, si capisce, il racconto si costruisce da sé. I calciatori hanno riottenuto l’uomo con la spada di fuoco al comando ed il messicano, grazie alla cura Gattuso, si è integrato nei ranghi.

Per chi avesse poca dimestichezza con De Amicis, suggeriamo una versione più nazional-popolare: c’era una volta l’idea di cambiare acque. C’era un allenatore che voleva mettere in discussione il ruolo di molti con un posto assicurato. C’era anche un procuratore, tale Raiola, non esattamente famoso per tenere i propri assistiti a stagnare a lungo sulle panchine delle squadre di serie A, magari con la storia delle bandiere nel calcio. Quando vedi qualche nube di incertezza all’orizzonte, dalle nostre parti o decidi di partire o ti affidi alla mamma. E la mamma è Napoli: i video di amore, le canzoni d’amore, i gesti d’amore. La città dell’amore. Nella nostra versione, un po’ più disincantata, quell’amore ha quasi sempre un cuore violento: è la resistenza al nuovo ammantata di decoro. La presa di posizione senza l’accettazione delle conseguenze. A volte, per non perdere il posto, capita che inizi a passare le pratiche sbagliate al nuovo collega di lavoro che insidia il tuo scatto d’anzianità. Finché il pericolo non si disinnesca. “Con i miei colleghi eravamo tutti per lo sciopero, uniti come un blocco di granito” diceva il Sordi di Un eroe dei nostri tempi. “E poi cosa è successo?” chiede il commissario. “Siamo andati tutti a lavorare” chiosa il comico.

Il resto ognuno se lo figura fa sé. Come il coraggio: ciascuno si disegna addosso quello che può. Una costante resta: quelli cui capita di trovare la stoffa giusta per provarsi un vestito nuovo, partono e vanno via.

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