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La Var ha reso il calcio più ottuso, è sparito il buonsenso

Ha azzerato l’intelligenza nel calcio. Che era sì furbizia, errore, sospetto e dubbio (e cosa è più intelligente del dubbio), ma era anche capacità di giudizio, elasticità mentale

Quell’espressione un po’ così, che hanno loro prima di andare alla Var. Gli arbitri. E quella faccia un po’ così, dopo, quando tornano corricchiando verso il centrocampo. “E ogni volta ci chiediamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotte, e non torniamo più”. Se la devono cantare ogni volta, la canzone di Paolo Conte. Ogni volta che indossano la poker-face amimica, lo sguardo che punta il vuoto, la pupilla dilatata, e fischiano la condanna a morte del buon senso: un rigore per un sfregamento millimetrico, l’espulsione per una carezza rubata, il fuorigioco rintracciato al microscopio assieme al miracolo della fotosintesi clorofilliana. Ce l’avete presente: è la faccia del vigile al quale contestate la multa, è la faccia dell’impiegato postale che non vuol consegnarvi la raccomandata con dentro il vostro documento d’identità se prima non gli mostrate il documento d’identità che è dentro la raccomandata che non vuol consegnarvi perché ecc… (spoiler: alla fine all’impiegato esplode il cervello come toccato da Kenshiro). Prima o poi Vespa ci farà un plastico: la rappresentazione dell’ottusità.

La Var – al netto dell’infinito dibattito sbadigliante sulla macchina e sull’uomo – ha alla fine azzerato l’intelligenza nel calcio. Che era sì furbizia, errore, sospetto e dubbio (e cosa è più intelligente del dubbio), ma era soprattutto capacità di giudizio, elasticità mentale, ragionevolezza. La partita di calcio era un contesto, zeppo di cose, dettagli, fatiche, momenti. Ora è una corsa ad un monitor e il ricorso al più scontato degli alibi italiani: “a termini di regolamento”.

Il pallone – sport situazionale, in cui l’adattamento è costante e convulso – è finito imbrigliato in una chimera: garantire ai colpevoli la certezza della pena, un processo equo. Oltre ogni ragionevole dubbio, come dicono gli americani. Nella trasposizione calcistica invece assistiamo a degenerazioni continue. Le ultime:

  • Il fallo di “testa” in Brescia-Genoa: Semprini salta un po’ scomposto e colpisce la testa di Romero, in netto anticipo. Testa contro testa. Irrati fischia, non ha ancora ben capito per cosa nemmeno lui. Rigore. Ci sarebbe la Var, per cose così: un richiamo dall’alto, un’occhiata veloce allo schermo e tutto passa. Niente. Rigore è e tale resta. Ecco dove si inceppa il meccanismo: non è vero che la var toglie discrezionalità agli arbitri, basta non usarla. Se sbagli e intimamente sei convinto di ciò che hai fischiato, non c’è tecnologia che tenga. Leggasi, nelle more, alla voce “ottusità”

  • L’espulsione di Borini in Verona-Cagliari. L’attaccante del Verona va in scivolata su Rog. Un tackle un po’ ignorante, rozzo, ma roba che fino agli anni 90 sarebbe stata “regolare”, ora diventa rosso diretto. L’arbitro Manganiello non ne è sicuro, quindi prima di decidere ricorre alla Var. Torna in campo e con la faccia impermeabile ai rimbrotti comunica l’espulsione. La volontarietà e l’involontarietà non esistono più: siamo nell’era del robot, della vivisezione, del cavillo.

Ma poi ci sarebbe tutta la teoria dei falli di mano in area, e lì non c’è verso: gli attaccanti ormai sparano nel mucchio sperando di incrociare un arto qualunque, tanto poi ci pensa la telecamera a screenshottare il tocco infame. L’area di rigore è diventata un posto per omini del bigliardino, senza braccia. Un giorno lontano, i difensori, quelli col talento, nasceranno  direttamente sprovvisti.

Questa sottomarca di legalitarismo spinto, di puritanesimo regolamentare è stato definito con ben altra incisività da Gianni Mura: “un’idiozia totale”. Che non è per forza una definizione spregiativa – lo è, ovviamente – è proprio un dato di fatto. La Var è diventato un ricatto morale: se lo dice la Var è legge, perché la Var è scienza. Non ammette errori. L’uomo che la usa, se ne sente il messaggero, è allo stesso tempo alleggerito di una responsabilità non più solo sua e altezzoso nel trasmettere l’inoppugnabilità della sentenza. E’ – rischiamo di ripeterci – ottuso.

“Ogni volta ci chiediamo se quel posto dove andiamo non c’inghiotte, e non torniamo più”. Ma tornano, infine, e hanno quell’espressione un po’ così. Di chi una volta era chiamato a decidere, ora solo a vidimare.

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