ilNapolista

La lezione di solidarietà dell’NBA alla presunta industria del calcio

Forbes racconta il programma sociale del basket americano per la pandemia: come si è mossa per aiutare e informare gli americani. La Serie A invece…

La lezione di solidarietà dell’NBA alla presunta industria del calcio

“Il calcio è un’industria”. È il mantra di queste settimane di rincorsa alla riapertura della Serie A. Un’affermazione senza qualifiche: non serve sapere che tipo di industria sia – buona, cattiva, che produce solo debiti o virtuosa – è un’industria punto e basta. Quindi non può permettersi di fermarsi come hanno fatto altri sport che evidentemente – secondo loro eh – industrie non sono. Guarda l’NBA, dicono.

Ecco, guardiamo l’NBA che è la più pesante industria sportiva al mondo. Non ha ancora delineato un piano ben preciso per riavviare la stagione interrotta dal lockdown, per ora si sa che il 1° giugno dovrebbero partire gli allenamenti veri e propri, e che forse per metà luglio tutto il baraccone  – parliamo di un mostro da 1.500 persone – si chiuderà in una “bolla” (così la chiamano) nel Disney Word di Orlando per giocare in sicurezza.

Nel frattempo però l’NBA non è rimasta impalata davanti ad uno specchio a strepitare come i bambini “siamo un’industria, fateci giocare”. S’è comportata come, appunto, una vera grande industria dell’intrattenimento, con un ruolo sociale oltre che economico. Lo racconta Forbes: non molto tempo dopo lo stop delle partite, l’NBA ha messo su “NBA Together”, un programma strutturato di iniziative sociali lontanissimo dai modelli cui siamo abituati noi.

In Italia la Serie A – da questo punto di vista – è scomparsa: ogni giocatore, ogni singolo club, s’è speso per la sua causa virtuosa aiutando la comunità per come ha potuto, soprattutto sviluppando una miriade di raccolte fondi. Il basket americano invece s’è mosso all’unisono.

Uno dei pilastri di questa iniziativa si chiama Know the Facts: conosci i fatti. Abitando un Paese governato da Trump (il Presidente che aveva pensato di debellare il coronavirus iniettando candeggina nelle persone) l’NBA ha agito sul piano informativo.

L’idea – scrive Forbes – è che non tutti leggono periodicamente riviste scientifiche mentre sono al bagno. È solo un’ipotesi, ma probabilmente ci sono più persone che seguono l’NBA e le sue star. Pertanto, la lega, gli allenatori e i giocatori hanno l’opportunità di raggiungere un gran numero di persone che altrimenti non potrebbero conoscere i fatti per quel che sono, aiutando dal basso a combattere la pandemia. L’NBA ha creato un sito collegato a quelli dell’OMS e dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (i famosi CDC). E ha prodotto e trasmesso interviste con importanti scienziati e medici con l’obiettivo di amplificare le informazioni corrette e l’accesso alle risorse scientifiche nel tentativo di superare la spazzatura che fluttua sui social media. Ovviamente con un stile adeguato ai fruitore. Tipo così:

Il secondo pilastro dell’iniziativa NBA Together si chiama Acts of Caring: l’NBA, i team, i giocatori e i proprietari delle franchigie hanno donato finora oltre 89 milioni di dollari e oltre 10,2 milioni di mascherine agli operatori sanitari e alla popolazione. Inoltre, visto che negli Stati Uniti la catena di approvvigionamento alimentare è in crisi, quasi subito giocatori e squadre NBA hanno donato oltre 7,5 milioni di pasti ai segmenti più bisognosi della popolazione: soprattutto le minoranze etniche,  economicamente svantaggiate e ovviamente più colpite dalla malattia.

Il terzo pilastro si chiama Expand Your Community, una serie di tutorial distribuiti a pioggia sui social e in tv per aiutare le persone a mantenersi fisicamente e mentalmente attive e in salute. Tipo così:

Oltre 40 giocatori ed ex stelle sono apparsi in annunci di servizio pubblico generando oltre 59 milioni di visualizzazioni video.

L’articolo di Forbes si conclude con una citazione di Mandela:

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose”.

E sì, l’NBA è un’industria.

ilnapolista © riproduzione riservata