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Il paradosso di Spezia-Pescara a porte aperte: la burocrazia batte il coronavirus

Mentre a Napoli rinviano, in Liguria la serie B va avanti come se niente fosse: il decreto arriva troppo tardi e la gente va allo stadio. Intanto i calciatori non toccano i bambini-mascotte

Il paradosso di Spezia-Pescara a porte aperte: la burocrazia batte il coronavirus

Il decreto non è arrivato in tempo, Spezia e Pescara ormai erano praticamente in campo a scrivere un pezzo di storia dell’emergenza: l’ultima partita a porte aperte mentre il resto d’Italia chiudeva per un mese. Il risultato, ormai tocca farsene una ragione, non interessa più a nessuno. E’ un orpello romantico di un racconto più pruriginoso: c’era gente allo stadio? E hanno rispettato il metro di sicurezza? Starnutivano nel gomito? L’hanno letta la circolare del Ministero?

E’ finita 2-0 per i liguri, ma c’è mancato poco che le telecamere indugiassero solo sulle tribune. Spettatori paganti 1.450 (incasso di 14.000 euro) più 3.751 abbonati. Una specie di dimensione parallela, una distorsione spazio-temporale della realtà che tutt’intorno andava barricandosi in casa. La vittoria dell’onnipotente burocrazia, che piega il buon senso alla logica del minuto, della firma, della promulgazione. Come se i virus rispettassero le leggi. Un attimo prima siamo lì avvinghiati per festeggiare un gol, e quello dopo il decreto impone di starsene sul divano da soli a inveire contro la tv.

C’erano persino i tifosi ospiti, e a pensarci bene: quanto è già diventato desueto il concetto di “trasferta”? E’ come se un’ultima boccata di libertà fosse stata strappata al panico, appena in tempo. Con tutti i controsensi che la psicosi pop italiana regala al mondo per dirsi sempre unica: porte aperte, ma poi i giocatori in campo non si stringono la mano, e non abbracciano i bambini-mascotte. Ne abbiamo scritto qui, con un po’ di ironia: la distopia nasconde il comico e l’inverosimile. Ma man mano che andiamo avanti la realtà sta precipitando proprio verso estremismi del genere.

Il vademecum per un “sano” comportamento dei calciatori al tempo del coronavirus distribuito alle società dal comitato scientifico dei medici sportivi è pieno di chicche, in tal senso. E’ sconsigliato il contatto fisico, per esempio. Come si fa? Oppure “meglio evitare le premiazioni”, che quanto meno diventa un problema elitario: chi perde è a posto. Più facile “evitare i tifosi”: altro che le corse a farsi cazziare sotto la curva (che tanto sarà comunque chiusa).

Il punto, più serio, è che la tempesta di questi ultimi giorni potrebbe rivelarsi vana al primo caso di contagio di un calciatore. Porte chiuse o no, in campo ci vanno loro, e la catena si spezza al primo anello che cede: in quarantena lui, la squadra, gli avversari. A ritroso. E il calendario già impazzito finirebbe per collassare. E’ successo solo nel 1915, di non terminare la competizione: c’era la prima guerra mondiale, i calciatori partivano per il fronte.

Nel frattempo non resta che sottolineare il paradosso di un Paese che mentre organizza la “resistenza” si perde per strada l’omologazione delle decisioni prese dalle varie federazioni sportive. In un funambolico attorcigliamento di carte bollate e giurisdizioni contrastanti: a Napoli non si gioca la semifinale di Coppa Italia, e in contemporanea in Liguria si gioca la Serie B a porte aperte. Come se ci fosse una frontiera da qualche parte oltre il Lazio, e la geografia avesse invertito i poli del contagio.

Ma tanto ci siamo già assuefatti: ci arrovelliamo sul cavillo, mentre la realtà va avanti. Guardiamo la gente in tribuna e non i giocatori in campo. Sembra la scena finale di Bianco Rosso e Verdone, quando al seggio tutti litigano per un voto annullato, mentre muore la Sora Lella.

 

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