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Non è un dramma, è solo un fallimento. Il Napoli corregga gli errori, partendo dall’azienda

«Fallire velocemente, fallire presto», dicono gli inglesi. Più errori si commettono, più si impara. Il Napoli cambi la governance e riparta, preferibilmente da Ancelotti

Non è un dramma, è solo un fallimento. Il Napoli corregga gli errori, partendo dall’azienda

È solo un fallimento. Un normale e semplice fallimento e da quello dobbiamo ripartire. Sforzandoci tutti, soprattutto i giornalisti, di non ragionare da tifosi, o sarebbe meglio dire da italiani, cosi come la nostra cultura latina, intrisa di cattolicesimo, spesso ci obbliga a fare.
Laddove, anatema dei nostri Savonarola, l’errore è l’abbandono della retta via, una violazione di una norma non conforme alla morale che provoca una sanzione sociale e dove il fallimento va al di là del significato giuridico ed è vissuto come un marchio indelebile, uno stigma sociale che mina la stima altrui e l’autostima producendo frustrazione, senso di impotenza e paura.

La cultura latina del «successo» non tollera imperfezioni o sbavature mentre la cultura anglosassone ripete come un mantra «fallire velocemente, fallire presto» perché più esperimenti faccio, più errori ho commesso e più ho imparato.

E il Napoli questo anno ha fatto prestissimo visto che a fine settembre già eravamo fuori dalla corsa scudetto. Il fallimento, secondo gli anglosassoni, è il punto finale di una serie di errori, spesso sistematici e ricorrenti. E fino a quando, soprattutto nella nostra città, giornalisti e commentatori continueranno ad analizzare i fallimenti nel mondo del calcio solo come conseguenza di un errore tecnico-tattico, non ci saranno evoluzioni e sviluppo delle capacità critiche e probabilmente falliranno anche i loro giornali e le loro iniziative editoriali.

Il problema va analizzato, risulta difficile anche per me confuso dalla “nebbia” del tifo, secondo logiche aziendali e manageriali. Lo abbiamo fatto a SpaccaNapoli, la rubrica radiofonica (Radio Amore) settimanale di “calcio dove non si parla di calcio” condotta insieme a Massimiliano Gallo e parlandone con Francesca Corrado, autrice del libro “Elogio del Fallimento” (Sperling&Kupfer) e fondatrice della scuola di fallimento.

Creare una «cultura di gestione dell’errore» è una esigenza non solo da soddisfare nel mondo del calcio. Nella nostra società necessita sviluppare una cultura dell’errore in modo che al verificarsi dello stesso si cerchi di capire dove e in cosa l’organizzazione ha fallito e non di chi sia l’errore.

Proviamoci

L’errore è una deviazione da una regola, in molti casi non nostra, spesso autoimposta.
L’errore in una organizzazione, anche una società di calcio, non ha origine dalla natura umana ma è più legato a fattori sistemici che ricorrono nei luoghi di lavoro e nei processi organizzativi nei quali emergono.
Ha quindi una origine organizzativa e resta silente nel sistema, fino a quando un evento scatenante (triggering event) non lo rende manifesto in tutta la sua potenzialità causando danni più o meno gravi.
In questo caso a provocare l’effetto dell’evento incidentale è sicuramente l’uomo (allenatore, presidente, calciatore, ecc.), ma la cosiddetta causa generatrice è da ricondurre a decisioni manageriali e scelte organizzative sbagliate. Andate a rileggervi, se vi va, cosa dicevo su queste colonne un po’ di tempo fa.

C’è sicuramente l’errore umano di un dirigente (il vicepresidente Edoardo De Laurentiis) che dovrebbe iscriversi e frequentare qualche corso intensive di comunicazione e di gestione delle relazioni.

C’è l’errore umano di un manipolo di giocatori immaturi, deboli mentalmente, con un potenziale di orientamento a vincere molto scarso e che il precedente allenatore aveva stigmatizzato, deresponsabilizzandosi ahinoi con atteggiamento non da leader, con la famosa frase “ lo scudetto lo abbiamo perso in albergo”.

C’è l’errore umano di un allenatore che, con la sua riconosciuta leadership calma, era venuto qui per lavorare sui neuroni dei calciatori e il risultato è invece lo spappolamento mentale di teste fragili.

Ma a differenza degli errori umani, che sono spesso difficili da prevedere, l’errore sistemico (organizzativo) può essere identificato e messo in sicurezza prima che si verifichi l’evento avverso.

L’errore sistemico di un’azienda che ha gestito malissimo, da ultimo in maniera vendicativa ed autolesionista, un diverso contesto di mercato. Il Napoli negli ultimi 5 anni è cresciuto in termini di dimensioni aziendali (fatturato, ranking, ecc) e non può’ essere più gestito come prima.

I livelli di protezione ed i meccanismi di difesa che l’azienda, ed il Napoli lo è, deve mettere in atto per evitare gli errori sono di vario tipo:
– Organizzativi (ruoli, organigramma)
– Umani (formazione, coaching)
– Procedurali e di controllo (selezione, valutazione, audit,)

Tutti hanno la stessa funzione, proteggere le persone dai rischi di un errore.

Ogni barriera dovrebbe idealmente essere priva di criticità, ma in realtà non è così.

Pur essendo nell’insieme efficaci, questi livelli di protezione presentano comunque delle debolezze: l’allarme che non funziona, un antivirus di software non aggiornato, una selezione sbagliata, una procedura di controllo non «centrata».

Nel Napoli se non inserisci una figura come il team manager si rischia il crash dell’intervento del vicepresidente.

Nel Napoli, se non chiarisci la questione dei contratti con i calciatori, ripetiamo immaturi e destrutturati mentalmente, rischi di trovarti di fronte ad una reazione inconsulta e incresciosa.

Nel Napoli se non si fa chiarezza sul ruolo dell’allenatore in sede di mercato ci possiamo trovare di fronte alla situazione di un Ancelotti, finora abituato a lavorare in società con grandi budget, che deve, per la ragion di stato, accettare il materiale a disposizione e non, ieri ci sono state le prime avvisaglie, lamentarsi.

Nel Napoli (e dal Napoli) se l’ufficio comunicazione (non affidandosi sempre e solo al presidente) non prepara una campagna comunicativa che chiarisca alla città e agli organi di stampa gli obiettivi reali, ci troviamo poi nella condizione di dover gestire le aspettative di una piazza che ha creduto alle parole estive di Ancelotti (non ci credeva nemmeno lui) sulle possibilità della squadra di vincere lo scudetto. Il Napoli, considerando le dimensioni aziendali, già fa miracoli a partecipare, ormai stabilmente e con buoni risultati, alla Champions League ormai e questo è il suo obiettivo reale. Mister Ancelotti lo sa bene e deve quindi decidere se vivere una esperienza alla Wenger (che in 22 anni ha vinto solo 3 Premier) oppure dare le dimissioni.

La contromisura da adottare è quindi cambiare le condizioni in cui l’essere umano opera. Non l’essere umano perché di meglio, in giro, non c’è nulla.

Ripartiamo da un Ancelotti già educato al «rischio» di sbagliare sin dalle elementari (nel mondo del calcio) e che non ha bisogno di certezze e di conferme. Gli occorrono dubbi e domande per smontare, buttare e ricostruire. E quelli, in questo periodo, li ha avuti!

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