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Il rocciatore Maestri: “Da vecchi serve più coraggio. L’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno”

Il rocciatore quasi 90enne intervistato da Repubblica: “L’alpinismo mi ha insegnato a vivere, il suo ricordo mi insegna a morire”

Il rocciatore Maestri: “Da vecchi serve più coraggio. L’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno”

Repubblica intervista Cesare Maestri, il più forte rocciatore del mondo dalla fine degli ultimi anni del Novecento insieme a Walter Bonatti.

“La mia impresa adesso è vivere con dignità fino alla fine. Sono un vecchio, ma non voglio passare per “mona” con me stesso e così non mi nascondo. Sì, sto in piedi e cammino solo grazie al girello, la testa vaga a lungo per luoghi ignoti. Dipendo dagli altri. Sono stato forte e ho visto mia moglie Fernanda morire: ho imparato a non avere paura di essere ammalato e di diventare debole. Un uomo alla fine dovrebbe vivere come ha vissuto”.

Una vita dedicata all’avventura, la sua. Vive a Madonna di Campiglio da 63 anni. Tra poco ne compirà 90.

Dice:

“Il punto, nella vita, non è se sei arrivato un metro sopra, o se ti sei fermato un metro sotto. Il punto è se sei riuscito a essere un uomo, oppure no. Io non sono più il “ragno delle Dolomiti”. Sono un vecchio, ma ho sempre rispettato gli altri. È la fiducia che tiene in piedi l’umanità: il problema è che adesso manca”.

Qualche mese fa, Reinhold Messner lo attaccò accusandolo di non essere mai salito sul Cerra Torre, nel 1959, come invece dichiarato da Maestri. In quella spedizione c’era anche Toni Egger, morto durante la discesa a causa di una valanga.

Gli risponde Maestri:

“Non parlo di lui. Impone la verità su persone come me, che non possono più difendersi. O su altri amici, come Toni Egger e Cesarino Fava, che sono morti. Non mi offende la vigliaccheria, ma la cattiveria. L’alpinismo non c’entra, penso alla nostra vita di tutti i giorni”.

Affronta la vecchiaia con il coraggio, dice:

“Credo sia l’unico appiglio che non ti tradisce, dall’inizio alla fine. Non avere paura è fondamentale. Se mi rivelassero l’ora in cui morirò chiederei solo mezz’ora in più per salutare come si deve le persone che amo”.

Quando scalava, Maestri gettava la corda nel vuoto e poi scendeva da pareti di sesto grado. Per questo è stato accusato da molti di spavalderia.

“Mi preparavo e poi avevo fiducia. Non ho mai voluto morire in montagna. Quello è il posto dove ho vissuto. Ricordo che l’alpinista più completo è quello che invecchia e che muore solo per colpa della vita. Ho avuto un tumore, braccia e gambe faticano a muoversi, la testa se ne va. La mia impresa adesso è fare cinquanta metri in mezz’ora per arrivare al supermercato. Per questo continuo a non avere paura”.

Oggi passa le giornate a dormire, a fare ginnastica usando come attrezzi le scale di casa e a controllare le montagne da lontano.

“Da vecchi serve più coraggio che da giovani: e l’impresa di sopravvivere non la sponsorizza nessuno”.

La vera impresa, a 90 anni, dice,

“Resta la volontà di superare i propri limiti. Nell’impresa c’è l’emozione, nell’exploit conta solo il traguardo. Io a questo punto sarei pronto anche a dissolvermi e a sparire. So che non è possibile, così mi alleno ogni giorno e vivo. L’impresa di un vecchio è andare avanti aggrappato alla dignità”.

Pensa di avere avuto una vita importante?

“Non ho sottovalutato l’importanza dell’inutile. So di aver vissuto per arrampicarmi sul niente, mi capita di chiedermi cosa cazzo ho fatto per così tanto tempo. La realtà è che siamo stati figli della guerra, cresciuti tra problemi grandi. Il più grosso, assieme alla fame, era la retorica. Nessuno è stato risparmiato, pensiamo alla cosiddetta letteratura di montagna, o a quelle che chiamiamo vette. L’unica cosa importante che ho fatto, lo ammetto, è restare libero”.

L’alpinismo, racconta, gli ha insegnato a vivere, ora “il suo ricordo mi insegna a morire”.

 

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