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Non c’era Napoli all’ultima di Hamsik, Napoli non esiste

Napoli scompare in una tiepida dissolvenza come fa il suo capitano. Oggi non finisce un’epoca, finisce un teatro.

Non c’era Napoli all’ultima di Hamsik, Napoli non esiste

Una tiepida dissolvenza

Nella notte di quello che potrebbe essere il finale commiato di Marek Hamsik, lo slovacco cala definitivamente il sipario sull’illusione innocente e colpevole, sulla rappresentazione pervicace morbosa e leggera che la città da secoli ha di sé: Napoli, in realtà – pare infine dirci quest’uomo dell’est e da sempre nostro – non esiste. Non è mai esistita. Non esistono le bandiere. Non esiste Castelvolturno. Non esiste Fuorigrotta. E la prova incoerente incompleta e paradossale non può che fornirla, senza alcun gesto, privo di ogni evento da tramandare ai posteri, l’uomo che più abbiamo amato per averci rappresentati nella nostra tracotante inadeguatezza.

Hamsik – forse, si badi bene, forse, si usi il condizionale come in ogni enigma che si rispetti – lascerebbe il club che egli ha sposato per un decennio dinanzi a qualche sparuta manciata di spettatori. Quelli rimasti, dopo mille scremature, a valle delle insulsaggini sui servizi igienici, sulle carenze infrastrutturali, sui prezzi dei biglietti, sui campionati truccati. Tutto falso, tutto contraffatto e, come il sangue nella cattedrale, tutto chiacchiera sacra. Napoli scompare in una tiepida dissolvenza come fa il suo capitano, richiamato a qualche minuto dal termine di una tipica mancata tragedia calcistica di queste parti, con gli avvoltoi ormai spennati pronti a scaraventarsi sulla vittima di turno – il presidente, l’allenatore, non ha più importanza – in un ciclo eterno così noioso ed antiestetico da smarrire ogni traccia della tragicità dei grandi supplizi mitologici per accostarsi assai più a uno di quei b-movie riempitivi notturni delle tv locali degli anni ’80.

‘O sole mio

Ce lo dice Marek, proprio lui, che Napoli non esiste. La canzone più famosa della storia della musica cittadina è stata scritta ad Odessa, si chiama ‘O sole mio e, nel tripudio della contraffazione, la versione migliore è quella riscritta in inglese e cantata da Elvis – I’d spend a lifetime/Waiting for the right time cantava il ragazzo di Tupelo qualche era fa e forse già parlava di noi, i professionisti del ritardo, della nostra conclamata incapacità di sostare nel momento, di sentire la leggerezza dell’adesso, di godere del sangue che pulsa e non torna, insomma della nostra impotenza sentimentale – For who knows when/We’ll meet again this way – ebbene il momento è svanito, il Capitano va via mentre una città continua a guardarsi le punte degli alluci, a chiacchierare dell’inessenziale lasciando uno stadio vacante.

Va via – o andrebbe via – nei mesi in cui a scaldare la panchina c’è il più grande di ogni tempo, un orologiaio che rimette le lancette dei meccanismi sportivi e metasportivi di questi luoghi al loro posto naturale, dimostrando negli atti e con poche parole quanto era ovvio da tempo, ovvero che Hamsik sarebbe già dovuto andar via anni fa, prima di spegnersi e spegnerci, prima della retorica sarrita che lo ha utilizzato nella sua caratteristica inutilità. Bastava Ancelotti a far collassare la māyā partenopea, quando in gioco c’è più della banale contrapposizione dialettica tra vecchio e nuovo, si è più a fondo della scialba discussione sul futuro che distrugge il passato. Oggi non finisce un’epoca, finisce – per chi è interessato – un teatro. Finiscono le tavole di un palcoscenico in cui da sempre siamo tutti chiamati a recitare una parte immutabile.

Napoli non esiste. Hamsik non esiste. Il San Paolo non esiste. Nel martirio dell’ex ragazzo di Banská Bystrica risuonano le sacre parole: Solo ciò che sentiamo, ora, c’è. Il resto sono solo arnesi per una città di terremotati sentimentali.

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