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I bravi ragazzi del Napoli sono figli della città buonista

Chi vince, è conflittuale, egoista. Nel Napoli sorridono pure quando litigano. Una squadra in linea con la accomodante sub-cultura televisiva

I bravi ragazzi del Napoli sono figli della città buonista

Il resettare delaurentisiano

La sola ripresa da parte di questa testata dell’idea delaurentisiana di “resettare”, il solo risuonare di questo verbo da pagine sempre scomode e problematizzanti, ha fatto rabbrividire tanti lettori, anche tra gli aficionados. Probabile che a Napoli il solo pensiero di liquidare un’esperienza, un ciclo – sia pure bellissimo -, mettersi alle spalle qualcosa, spaventa come poche altre cose, come se non vi fossero cicli che si chiudono, naturalmente, fisiologicamente, che debbono chiudersi, per il bene di tutti, anche dei protagonisti di una storia al tramonto.

Eppure, Napoli è una città che ha un problema enorme con la memoria, il che contraddice questo attaccamento alle formule, ai nomi, ai volti. Eppure, fino a qualche ora fa si rivendicava il diritto a pretendere il risultato, a fischiare i giocatori, a contestare il presidente, dunque la società che ci ha regalato la fantastica avventura di questi ultimi anni. Eppure, tra alcuni dei tifosi che dicono che bisogna essere più grati a questo team (gratitudine mai messa in discussione da chi ha sostenuto la “tesi del reset”, va senza dire), ci sarà con alta probabilità anche chi sui social ha messo in croce il povero Mario Rui, costringendolo a chiudere i suoi profili, o chi ha fatto a pezzi Arek Milik per il gol mancato.

Il presunto cuore d’oro di Napoli

A Napoli pensiamo di essere tutti più buoni degli altri, generosi, dal cuore d’oro, in realtà i tifosi napoletani degli ultimi anni  – non tutti, certo, ma una cospicua fetta di essi – sono stati, sì, buoni ma a ridurre il tifo a Napoli a qualcosa di indecente, per le fazioni nelle curve, per l’”io tengo lo striscione più grande del tuo”, per le curve che cantano per cazzi loro, ognuna col suo canto distintivo, per la concezione risarcitoria e un po’ da frustrati che si è impresso a quello che dovrebbe essere un sostegno a prescindere alla squadra della città. Per l’agghiacciante “Pappò cacce ‘e sorde”. Per aver messo da parte “‘O surdato nnammurato” in favore di canti insulsi, senza storia e senza futuro. È che questi signori, che per fortuna, ripeto, non sono tutti i tifosi di Napoli – e si fa spazio anche grazie ad esperienze come Il Napolista una nuova leva con concezioni diverse -, non hanno proprio idea di cosa sia il tifo identitario autentico, e non ce l’hanno nemmeno dopo aver visto i tifosi del Liverpool cantare a squarciagola tutti insieme “You’ll never walk alone” a inizio partita, mettendo in soggezione i nostri calciatori e facendo venire i brividi a noi a casa (un pezzo dei nostri tifosi che erano lì cercava, inutilmente, di disturbare quel canto, annoverando un’altra figura di quelle epiche).

A ben vedere, poi, l’essere buoni, nella accezione che si è imposta in questi ultimi anni, nel senso dunque di una simpatia un po’ ruffiana, di un “buonismo” accattone (perdonatemi per il “buonismo”, odio l’uso che se ne fa da qualche tempo a questa parte), non è proprio una medaglia da esibire al petto e ho l’impressione che il “politically correct” abbia a che fare anche col Napoli di questi anni.

A questa squadra non si può non volere bene, ma con un minimo di obiettività non può non essere riconosciuto che le fa difetto, specie nei momenti decisivi, da ultimo per fortuna quasi solo in quelli, la cattiveria agonistica, la “garra charrúa”, vale a dire un mix di determinazione, sforzo caratteriale, coinvolgimento emotivo e, ancora, intensità, presunzione, capacità di sofferenza, rabbia.

Quando chiediamo a degli atleti di essere concreti, di saper finalizzare, chiediamo qualcosa che ha per presupposto proprio la capacità di farsi uscire gli artigli ed usarli al momento opportuno, di ingaggiare una lotta all’ultimo sangue, che ha a sua volta come premessa una determinata tipologia di personalità unitamente ad un lavoro sulla mente, l’introitare un pensiero, una analogia: il match come lotta con la morte.

Napoli influisce sui giocatori

I ragazzi del Napoli di questi anni importanti sono perlopiù cresciuti qui, hanno comunque vissuto  a Napoli parte degli anni della loro formazione; in città ci stanno bene, nonostante qualche incidente, li puoi beccare in giro, farti un selfie con loro, difficilmente si sottraggono. Tutti possono vedere, non solo mentre giocano divertendosi, sorridendo, praticando un calcio “da signori” (Massimiliano Gallo ha detto ampiamente della correttezza in campo), di che pasta sono fatti, sono tutti dei bravi ragazzi, di sentimenti sinceri, senza contorsioni mentali, senza grandi ossessioni. Probabile sia anche una scelta societaria quella di tenere qui persone pulite e prive di disturbi di qualche tipo. Ancora più probabile si siano combinati diversi fattori e la personalità dei singoli è uno di essi, anche se il contesto in cui questi giovani sono stati immersi non può essere ritenuto ininfluente.

Risultato è che la squadra è composta da giovani, giunti in qualche caso alla trentina, che amano divertirsi giocando a calcio, che, se esagerano nello sbuffare perché tenuti in panchina, e lo danno a vedere, poi si scusano col compagno che gli è stato preferito, ed è tutto vero, il rammarico, la vicinanza all’altro: questi qui si vogliono bene, sono rispettosi, solidali, “perbene” nel senso più buono e bello del termine.

Chi vince, difficilmente è così. In chi vince c’è spesso l’odio puro, c’è la frustrazione che si scatena in campo, il conflitto, l’egoismo, in qualche caso la psicopatologia.

Il tutto viene poi gestito dal tecnico maieutico, dalle sue capacità di empatia, dalle sue palle, dalla sua psicologia, smussato, composto, disciplinato, condotto ad una qualche armonia, ordine, ma di fondo le squadre che vincono sono fatte per una buona componente da manigoldi, scostumati, sgherri.

Qualche tempo fa scrissi da queste pagine:

“Il Napoli è come ce lo ritroviamo, incapace di cattiveria e cinismo, perché così è Napoli.

Ciò che manca alla squadra è ciò che manca alla città, a dispetto di una percezione comune plasmata dal giornalista collettivo che ci racconta di una metropoli solo violenta, spietata, illegale nel dna, brutale.

Per l’amor di Dio, nessuno nega che vi sia anche questo, Napoli è una megalopoli postmoderna dalle mille sfaccettature e l’abbrutimento di vaste aree della città e della popolazione abbandonate a sé stesse, così come il fenomeno delle baby gang, è uno dei prodotti più vistosi dei processi di modernizzazione (una modernizzazione solo subita) malamente guidati, senza capacità di dialogo con ciò che in Napoli era già moderno prima del moderno, illuminista prima dell’illuminismo, europeo.

Per paradosso, un altro esito della italianizzazione (ed americanizzazione) di Napoli appare essere un palese infiacchimento che assume le sembianze di una sorta di buonismo (a volte anche ipocrita, penso agli applausi a Cannavaro, uno che facemmo a brandelli, come pure all’estate in attesa di Cavani, uno che fischiammo).”

La riflessione sulla svolta a metà di Ancelotti mi conferma in quanto scrissi ai tempi di Sarri. È tema che investe la subcultura televisiva su Napoli di questi tempi, penso a “Made in Sud”, penso in generale ad un’immagine che complessivamente oscilla tra due poli – per semplificare, Gomorra e Alessandro Siani – che non possono racchiudere la complessità della città né lambirne la verità nascosta nel suo ventre clandestino. E forse è arrivato il momento di tornare ad altri modelli, ad esempio al cinismo di Troisi, alla cattiveria di Eduardo, che sapeva che Napoli è il dramma di una famiglia in cui il rancore necessario monta ed esplode ma poi si placa nei tempi di cottura di un ragù. Anche se, a ben vedere, nei sotterranei, anche oggi, che c’è chi sa farsi uscire “il coraggio impossibile” (titolo di un disco di Ntò, ex rapper dei Co’Sang), per quanto, manzonianamente, il coraggio o ce l’hai o non te lo puoi dare, mentre la cazzimma si può acquisire. Se non sei arrivato ai trenta.

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