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Il Var e la lezione di Ottavio Bianchi: a Napoli se ti trovi un alibi, sei morto

Il Var non ha cambiato il calcio. L’ingresso nella storia passa per una vittoria allo Juventus Stadium. Il resto è paura di non farcela

Le due fazioni del Var

Gennaio è tradizionalmente il mese in cui, dopo la baldoria delle feste che infiacchiscono gli animi, si torna ai conti della serva. Ieri, dopo mesi di agiografia del Var, il tifo napoletano ha constatato che il mezzo non garantisce onestà di giudizio – pare che il potente di turno abbia trovato l’inghippo. Questo è lo stesso Var che il tifo aveva salutato come manna dal cielo, il medesimo che ha giovato più di una volta – e a ragione – al Napoli, condannando più d’una le dirette concorrenti e rasserenando gli animi.

Semplicemente, il calcio ha riscoperto, con alcuni secoli di ritardo rispetto al resto dell’umanità, l’ovvio più banale, cioè che l’oggettività del fatto non esiste: esistono solo misure di eventi effettuate con strumenti che hanno una loro sensibilità, e che finiscono sulle retine di uno o più occhi umani appartenenti a persone che la sera prima possono aver litigato con la moglie, pestato una cacca di cane, vinto alla lotteria o trovato la fede in dio. Nessuno può sapere cosa alberga nelle teste degli uomini. L’ironia della sorte è che si saldano oggi due fazioni: i reazionari critici del Var della prima ora, come tecnologia che inquina la bellezza primigenia del gioco; i sostenitori accaniti di questo mezzo, che ora chiedono automazioni ulteriori, più telecamere, arbitraggio distribuito. Entrambi ne salutano la fine. Siamo, possiamo dirlo, al consueto delirio di inizio anno.

La paura di non farcela

Delirio che deriva da altro – ironia nell’ironia, la realtà è sempre nascosta. E questo altro è la paura. Di non farcela, dopo aver terminato non bene la strada in Champions e aver perso malamente in Coppa Italia. Paura dettata da due componenti: l’eccesso di desiderio e la fuga dalla verità dei numeri. La prima è quella che ha colpito tutto il tifo azzurro ieri quando, dopo aver visto l’Inter perdere due punti e la Roma tre, riteneva ovvio che anche la Juventus ne perdesse qualcuno a Cagliari – un desiderio che ci avrebbe legittimamente portato a immaginare la definitiva pace in Medioriente, Theresa May dimissionaria a vendere kebab a Berlino e lo stadio nuovo del Napoli pronto in sessanta giorni.

Bisogna sbancare lo Stadium

La seconda è il non detto di cui si fa fatica a parlare sul serio: la necessità che ha la squadra azzurra, che ambisce a vincere lo scudetto, di aggiudicarsi uno scontro diretto contro la Juventus. In breve, bisogna sbancare lo Stadium, come non accade dalla notte dei tempi. Personalmente, ritengo l’impresa difficile ma non impossibile. Ieri il Napoli ha confermato la sua capacità di boicottare se stesso ed il proprio sistema assiomatico di gioco quando serve, dopo un tempo e mezzo alla ricerca della realizzazione più raffinata, con un autentico, improvviso e anarcoide sfondamento di testa del suo centrale difensivo. Ottima notizia. Howling Wolf che attacca la sua chitarra elettrica in un concerto per arpa e orchestra.

Contano poco o niente le disquisizioni di politica calcistica, contano ancora meno le lagnanze di chi si illude che un sistema di lenti e quattro videoregistratori rendano il mondo magicamente più giusto. Il calcio deve istruirci a camminare in quanto c’è, nel mezzo di ciò che è possibile che esista. Per questo ha ancora più ragione Ottavio Bianchi, anche lui uomo di provincia ma dotato di un certo pragmatismo, quando dice che a Napoli, se ti trovi un alibi, sei morto. E per questa stessa ragione è letale, specie ora, giocare a beccare l’espediente più insensato e contorto che possa giustificare una sconfitta, magari immaginando che le regole cambino per farci contenti. Non esiste alcun obbligo di vincere. Esiste l’obbligo di puntare, però, solo alla vittoria numerica, finale, solo al risultato. Il resto è tutto salotto.

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