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La Nazionale di Ventura è lo specchio dell’Italia

Mentre il mondo indica una strada completamente diversa, l’Italia – che vinto sempre così – decide di rimanere ferma. Anche se così non vince più.

La Nazionale di Ventura è lo specchio dell’Italia

Sensazioni

Ci siamo. Svezia-Italia si giocherà questa sera, veniamo da una settimana piena, ricca di commenti e analisi e racconti su questa partita. Giornali, tv, siti internet: sappiamo tutto, lo sappiamo prima e la sensazione è quella dell’assoluto deja-vù. Con la storia, con noi stessi. Ce l’ha spiegato José Altafini, oggi, in un’intervista a Repubblica: «A Mexico 70 l’Italia non schierò dall’inizio Mazzola e Rivera, il Brasile aveva cinque numeri dieci in campo». Si parlava di Insigne, su Repubblica, ma ovviamente il discorso va oltre.

Basta leggere la Gazzetta o ancora Repubblica per renderci conto che siamo fermi. A un anno fa, che poi è come dire tre o quattro o anche cinque anni fa. Scrive così, Enrico Currò sul quotidiano romano: «Età media avanzata: sette titolari sopra i 30 anni. E il modulo 3-5-2, gradito allo spogliatoio, ai senatori». Non è molto diverso da Mexico 70, ma non perché ci sia fuori Insigne. Magari.

Il punto è un altro. In questo modo, si fanno fuori Lorenzo, El Shaarawy, Florenzi, Bernardeschi. Si fanno fuori tutte le indicazioni del campionato italiano, che tatticamente è molto più avanti di quanto amiamo raccontare e raccontarci. Merito di Sarri, ma lui è solo una parte dell’atlante. Ci sono la Roma di Di Francesco, l’Inter di Spalletti, la Sampdoria di Giampaolo.

C’è un intero paese calcistico che prova a parlare un’altra lingua, perché la retorica autocostruita della grinta, della difesa e del gioco speculativo funziona quando hai i calciatori più forti. Quando c’è il talento cui aggrapparsi. Vedi la Juventus, che è un’altra cosa rispetto ad altre squadre di Serie A eppure ha ripudiato (sta ripudiando) le marce basse. Perché se innesti le marce basse contro il Real Madrid, fai poco. Perdi, comunque. Come il Napoli, ma almeno il Napoli si è divertito a “giocare in faccia” a Sergio Ramos – fin quando gli è stato consentito.

La storia

Ci si è messo anche Chiellini, ieri. «Il guardiolismo ha rovinato una generazione di difensori, Oggi tutti vogliono impostare, ma nessuno sa più marcare. Ed è un peccato, perché certe caratteristiche hanno permesso al nostro calcio di eccellere ovunque». Non che il buon Giorgio non abbia ragione, è tutto vero quello che dice. Però il gioco e il mondo si evolvono, vanno avanti, cambiano. Serve altro.

Lo dice la storia, quella recente e quella meno recente. Il nostro calcio ha prodotto gioco e risultati d’élite quando ha potuto schierare calciatori d’élite. Non solo difensori e centrocampisti di rottura, ma anche grandi uomini offensivi. Mazzola e Riva e Boninsegna a Mexico 70; Rossi e Antognoni e Bruno Conti a Spagna 82; Totti e Del Piero e Toni e Pirlo a Germania 2006. Certo, anche Facchetti, Zoff, Scirea, Gentile, Cannavaro, Buffon e Zambrotta. Tutti insieme, una qualità spaventosa. Che oggi non appartiene all’Italia, a confronto con altre nazionali. Succede, questione di cicli e di programmazione. È il tempo che gestisce e andrebbe gestito.

Cambiare le cose

Proprio per questo, però, potrebbe essere un’idea cambiare le cose. Provare ad uscire da questa narrazione ormai anacronistica rispetto a (tutto) il calcio internazionale, che punta sui giovani e sul talento. La domanda è per Ventura, ma anche per tutti coloro che “credono” in questi valori calcistici dal sapore vagamente patriottico: noi siamo l’Italia e siamo così, non è giusto cambiare. Ci siamo. Però sono tutti scemi tranne noi? Sono scemi anche quelli che vincono? Cioè, per dire: della nazionale in campo stasera, Buffon, Barzagli e De Rossi sono gli unici ad aver vinto un titolo internazionale. Era il Mondiale 2006. Per il resto, si tratta di uomini di secondo piano nelle grandi stanze del calcio internazionale.

Oltre i “senatori” di cui sopra, ci sarebbero Bonucci e Verratti. Entrambi, però, rappresentano quanto più di antitetico possa esistere alla concezione del calcio italiano: difensore che imposta e porta palla; centrocampista moderno, offensivo, un trequartista che agisce da mezzala in una squadra che schiera, accanto a lui, Neymar, Cavani, Mbappé e uno tra Di Maria e Draxler.

Cioè, ci viene da sorridere: i nostri calciatori più riconoscibili a livello internazionale sono due simboli – più o meno lucenti – del gioco propositivo e noi li incastoniamo in una squadra basata sull’impermeabilità della difesa. Sulla forza di un trio difensivo che non gioca più insieme. E che insieme è riuscito a vincere solo quando (e dove) ha avuto la certezza di essere nella squadra più forte.

Costruire

Il punto finale: questa Italia potrebbe bastare per battere questa Svezia. Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini, Candreva, Parolo, De Rossi, Verratti, Darmian, Immobile, Belotti. Nove undicesimi di Euro 2016, ma neanche questo è il punto. Perché, ripetiamo: così la Svezia è battibile, eccome. Ma una volta ai Mondiali, si spera: cosa avremo costruito? Cosa resterà di questo biennio? Se la partita decisiva è (ancora) fondata sull’esperienza dei senatori e «sul modulo o modo di giocare che piace ai senatori», qual è stato il senso di questi due anni? Il puro e semplice risultato finale, verrebbe da dire. Ripensandoci, però, è il minimo auspicabile. Il minimo sindacale.

Ventura, lungo il suo percorso, ha via via inserito calciatori nuovi e giovani e promettenti nella sua lista convocazioni. Almeno quello, viene da dire, perché c’era comunque la percezione di un cambiamento possibile. Nel modo di giocare, nei nomi, nel senso della nazionale. Poi, però, tutto è stato e sarà sacrificato. Sull’altare della nostalgia, sull’altare di un nonsense: noi vinciamo così, eppure sono undici anni che non vinciamo a livello internazionale. Ci crogioliamo nella nostra storia, anche quando è ormai preistoria calcistica. Siamo fermi.

Qualcuno disse e dice: nessuna rappresentazione è più pregnante e precisa di una nazionale di calcio, rispetto alla sua nazione. Svezia-Italia conferma e confermerà questa visione delle cose, inevitabilmente. Nonostante il mondo normale, ma anche di quelli che vincono, vada da tutt’altra parte.

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