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Jorginho domina, ha il gioco dentro: è il faro di un Napoli bellissimo

È stato come Godot per la Nazionale di Ventura, ma intanto fa respirare il grande calcio al Napoli di Sarri. Ritratto di Jorginho, calciatore-compasso.

Jorginho domina, ha il gioco dentro: è il faro di un Napoli bellissimo
Jorginho Photo Matteo Ciambelli

Figlio d’arte, allevato a Verona

Jorge Luiz Jorge Frello ossia Jorginho, il signore del cerchio, il compasso nei piedi, le tempre negli occhi. Nato ad Imbituba, in Brasile, il 20 dicembre del 1991, il giorno prima dell’inizio dela disgregazione della Unione Sovietica, con i Protocollo di Alma- Ata e quattro giorni prima che Babbo Natale portava Gorbaciov a dimettersi.

Il mondo cambiava, il Milan vinceva lo scudetto da imbattuto (22 vittorie-12 pareggi) ed il Napoli era allenato da Claudio Ranieri. Jorginho è figlio d’arte, da parte di madre, calciatrice, e ha cominciato a giocare a calcio a Verona dove è cresciuto e si è fatto grande. Ai piedi dell’Arena, nella scaligera terra tanto cara a Shakespeare ed ai suoi amanti. Li crebbe il nuovo Alemao napoletano, li si è fatto conoscere, con quel sorriso spontaneo, e quell’aria da bulletto.

He got game

Carismatico, passionale, che ha saputo soffrire nei tempi in cui Benitez lo vedeva come assistente alla panchina, e non adatto al suo tandem in mediana. “He got game” dicono a quei campioni Nba che dominano: lui ha il gioco, lo ha dentro, lo possiede, lo sprigiona, come deodorante in un olezzo di decadenza del calcio italiano. Preciso, irruento, millimetrico, prezioso, disarmante, sereno e prepotente, quando costringe con gli occhi il pallone a raggiungere lo spazio, che ha visto solo lui. C’è chi dice che nello spogliatoio si fa sentire, cosi timido all’esterno, cosi affidabile per i compagni.

Sarri l’ha completato, ponendolo al centro del progetto, affidando a lui il compito di accendere la luce, di ricamare con pazienza quel fraseggio, quella tela intensa di tocchi che non possono non passare per il suo collaudo. Il suo impatto con la piazza partenopea è stato tiepido, l’empatia è sbocciata col tempo, con la crescita del processo sarrista e con la benedizione dei tribunali calcistici nazionali, che da tempo ne invocavano la presenza in Nazionale. Si, lui che l’ha scelta dal primo momento, e che Ventura, per scelte di moduli, non convocava, salvo poi buttarlo nella giocata all-in contro i modesti svedesi. E li il Professore fece la sua lezione, con disarmante superiorità tra colleghi spaesati, che si affannavano alla ricerca di una strada mentre lui già ne conosceva l’indirizzo e numero civico.

Il respiro del calcio

La metafora, dunque, di quel Godot di Beckett, che tutti aspettano ma nessuno gli va incontro. Jorginho, a Napoli, è il lampione di notte, le quattro frecce di segnalazione, il fendinebbia, l’incrocio principale tra la piazza che invoca la vittoria, ad ogni costo ed in ogni modo, e quella della ricerca della gloria attraverso l’ideale del gioco. Senza di lui, difficile che questo possa avvenire, il vigile artista dai piedi a forma di compasso, che sbriga faccende noiose, con l’efficienza e la bellezza di un artista di strada.

Quando non c’è, la mancanza si sente, pare che manchi qualcosa, come quando ti affretti a fare un pranzo domenicale con devozione e cura, ma una volta a tavola ti sei dimenticato di comprare i dolci, ecco cambia poco ma fa tutta la differenza del mondo. Oramai, Giorgio c’è, e deve esserci, con quel sorriso da bullo, e le tempre negli occhi, da Imbituba a Napoli, passando per Verona, col suo numero 8, che in chimica rappresenta il numero atomico dell’ossigeno, e chi, ad oggi, se non lui, dà aria e fa respirare, di gran calcio, questa squadra? Aprite la finestra sul centrocampo, che lui vi mostra il panorama.

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