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Risponde un guardiolista d’Italia: possiamo essere come il mondo, proviamoci

La scelta del modo di giocare è influenzata dai giocatori: può darsi che il talento d’Italia si sia spostato in avanti? Che la nostra tradizione non sia più l’unica vincente?

Risponde un guardiolista d’Italia: possiamo essere come il mondo, proviamoci

Rispettare sé stessi

Ho letto e riletto l’articolo di Massimiliano Gallo, quello sull’Italia “storicamente brutta e vincente”. Mi accingo a rispondere che ho appena cambiato canale su Sky, passando da Diretta Gol Serie B alla partita di tennis Federer-Sock. Questo per far capire che sono abbastanza sensibile alla bellezza, alla bellezza solo eventuale. Come alla vittoria. Per dire: tra Roger e Rafa Nadal, non ho dubbi. Non posso averne, ma riconosco che Nadal è un grande atleta. Non incontra il mio gusto, che è la frase chiave di un’altra persona che mi piace particolarmente (la splendida Levante), ma è un fenomeno. Cerco di essere obiettivo, come dire. A volte non riesco, ma ci provo.

Per rispondere a Massimiliano (succede sempre, praticamente ci scontriamo ogni giorno su questo tema), vorrei partire dal termine della sua analisi. La parte in cui dice: «Ricordiamo che nel 2006 il primo e il secondo qualificato nella classifica del Pallone d’oro furono Cannavaro e Buffon. Nessuno si ricorda chi giocò attaccante in quel Mondiale. Del resto, si alternarono più o meno tutti. I punti fissi stavano dietro. Ripetiamo, ciascuno giochi a calcio come meglio crede. Ma ciascuno rispetti sé stesso. L’Italia faccia l’Italia. Provi a segnare due gol e poi butti il pallone in tribuna».

Oggi siamo ancora noi stessi?

Rispetto per noi stessi. Ecco, è su questo che mi un po’ mi inalbero, divento rigido. Noi stessi, in questo momento, chi saremmo? Il punto è questo. Oggi l’Italia del calcio ha un’identità in fase di trasformazione, perché il benchmark di riferimento (la Juventus) è stato ed è forte, fortissimo. Ma si sta trasformando. Non sta seguendo una moda, si sta adattando al contesto che cambia, si evolve. E richiede un calcio diverso. Quella di Allegri è la politica del compromesso, dei piccoli passi per cambiare le cose. La Bbc classica, difesa a tre schierata bassa davanti a Buffon, è stata pian piano modificata. È diventata linea a quattro in fase di scivolamento, Barzagli è stato (nello scorso campionato) piano piano ridimensionato, oggi la Juventus difende qualche metro più in avanti e subisce qualche gol in più.

Ma la Juve è solo un riferimento, c’è altro. C’è una proposta diversa, e non parlo solo degli allenatori. Sono i giocatori a ispirare gli allenatori, non viceversa. L’Italia di oggi, volesse essere sé stessa, dovrebbe affidarsi a uomini che non sembrano più la migliore ipotesi disponibile. Buffon-Barzagli-Bonucci-Chiellini-De Rossi sono calciatori lontani dalla loro forma migliore, lontani dall’imprinting ormai consolidato del calcio propositivo che si pratica in Europa (Bonucci a parte) e quindi non possono essere più un riferimento. Ci abbiamo provato. Abbiamo visto com’è andata.

Non è questione di scelta

Non si tratta di scegliere il risultato piuttosto che l’espressione di gioco, si tratta di capire che non ci sono più i calciatori per interpretare il gioco secondo certi concetti. Oppure, ancora meglio: che i migliori calciatori che ci sono in Italia in questo momento preferiscono altro, e i giovani che spingono da dietro vengono da una formazione identica. Influenzata dal guardiolismo, forse sì, ma non è una questione di causa-effetto come sostiene Chiellini. Si tratta di un’evoluzione della specie (dei difensori, dei calciatori) rispetto a quello che il contesto chiede alla specie stessa. È darwinismo puro.

Guardiola non ha fatto altro che dimostrare che un certo tipo di gioco può anche essere vincente. Non si tratta di moda, non è solo una tendenza. È una dimostrazione rispetto alla possibilità di una teoria. Noi sappiamo come si vince, abbiamo sempre detto e pensato. Bene: l’Olanda, Sacchi e Guardiola (le tre ultime rivoluzioni, al netto o al lordo dei vari discepoli) ci hanno dimostrato che si può vincere, o quasi, anche in un altro modo. Noi sappiamo, lo abbiamo vissuto, che il calcio a modo nostro può condurre al successo. Il Chelsea nel 2012, l’Inter di Mourinho, volendo anche l’Atletico di Simeone. Ci sono tanti esempi. Ma oggi ci sono anche Guardiola e il suo calcio di posizione, il Real Madrid, la Germania, la Spagna. 

Provare ad essere come gli altri

Ecco, possiamo dire che chi si gioca a calcio per vincere, oggi, può farlo seguendo due strade. La tradizione, secondo Massimiliano Gallo, impone o comunque consiglia all’Italia e agli italiani di rivolgerci al passato per ritrovare la nostra chiave. Possibile, anzi verosimile. Perché anche Sacchi fallì, così come Sarri non ha ancora vinto, come Di Francesco o Montella o Spalletti.

Ma se fosse la nostra tradizione ad essere diventata – per un momento, o per sempre – anacronistica? Se provassimo ad assecondare tutto quello che di bello e di grande sta avvenendo fuori dal nostro circolo polare del gioco? L’obiettivo è andare ai Mondiali, posso anche capire che la strada più breve possa rappresentare anche quella più sicura.

Ma andiamo oltre Italia-Svezia e pensiamo ai prossimi mesi, ai prossimi anni. Al fatto che un’Italia basata sul possesso sincopato di Jorginho e sul dinamismo di Pellegrini e Florenzi, sulla regia offensiva di Insigne, sui tagli di El Shaarawy, e sulla difesa alta e concettuale di Romagnoli e Rugani possa essere apprezzabile come quella di oggi. Che una Juventus folgorata sulla strada del gioco di posizione possa comunque fare grandi partite in Europa e in Serie A. Che i giocatori di oggi siano fatalmente diversi da quelli di ieri. Oppure che il talento italiano si sia spostato in avanti.

Anche perché, perdonatemi: l’ultimo successo internazionale del calcio italiano genericamente inteso è vecchio di sette anni (l’Inter di Mourinho). Per la nostra Nazionale, bisogna risalire al 2006. Gli Europei altamente positivi di Conte e Prandelli sono si sono concretizzati partendo da idee tattiche di possesso (il primo) e intensità (il secondo) non lontanissime ma nemmeno contigue alla nostra tradizione. Insomma, come dire: provare a cambiare per sentirsi più vicini agli altri, imitarli, potrebbe anche rappresentare una soluzione. La nuova generazione, del calcio e dei calciatori, sembra ci stia chiedendo questo. Quella vecchia non funziona, o non funziona più. Mentre il mondo batte altre strade, e vince. Caro Massimiliano, cari tutti: perché non provarci anche noi?

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