Maurizio D’Angelo, difensore di Posillipo malato di saudade per Verona (e il Chievo). Simbolo, suo malgrado, del periodo più buio nella storia del Napoli.
Venezia
Il 24 maggio sera del 2003 cala una strana nebbia su Venezia, c’è umidità nell’aria e la città lagunare appare un luogo fantastico. Nello stadio “Pierluigi Penzo” si sente il fruscio dell’acqua che lo circonda, gli spalti sono in gran parte fatti di tubi Innocenti e in una curva si leggono striscioni quali Mastiffs e Fedayn.
Sembra quasi che alla prima mareggiata forte l’impianto debba essere smontato e portato altrove. Eppure è uno stadio storico dove il glorioso Venezia di Valentino Mazzola degli anni ’40 e quello del ritorno in Serie A degli anni ’60 ha giocato memorabili sfide contro le grandi del campionato. Neroverdi, con lo stemma della città in evidenza, qua e là fa capolino un po’ di arancione a dare vita a colori che sembrano spenti dalle amare vicissitudini societarie e del bel tempo che fu. Lontani i tempi in cui Recoba faceva il fenomeno.
Entra Saber
Quella “sera de Maggio” segna anche l’ultima apparizione in maglia azzurra ( per l’occasione in giallo canarino ) del napoletano Maurizio D’Angelo, schierato sulla fascia sinistra in una difesa che prevedeva, davanti a Manitta, il trio Bonomi, Savino e Bocchetti. A centrocampo giostrano Martinez, Vidigal, Marcolin e Pasino ed in attacco Stellone e Dionigi devono cercare di metterla dentro.
Saber prende proprio il posto di D’Angelo a due minuti dal termine, a partita ormai compromessa, col Venezia in vantaggio. Collina aveva fischiato un rigore per parte e prima Poggi, per i padroni di casa, e poi Dionigi, per gli ospiti, li avevano realizzati. Un futuro giocatore del Napoli, Maldonado, aveva segnato la rete del definitivo 2 a 1 per i lagunari e spento le velleità degli azzurri alla ricerca di punti salvezza. La squadra, guidata dal richiamato Colomba, uscì sconfitta e iniziò a sentire il fiato della serie C sul collo. A Venezia sembrò di affondare. Fuori di metafora.
Un’altra epoca
Quel Napoli era un club pieno di problemi, specchio di un calcio che nei problemi stava affogando. La retrocessione e la permanenza in serie B della squadra era solo la punta di un iceberg di un declino irreversibile. Il Napoli era una squadra mediocre, ma lo era anche la società. Piena di debiti, stipendi pagati col contagocce, per l’ennesima volta una città rischiava una amara retrocessione. Sarebbe stata la prima in serie C, prima di quella decretata dai tribunali.
L’incubo della terza categoria con Naldi si stava materializzando, un anno esatto dopo l’abbandono di Ferlaino. Che, per inciso, se doveva dire qualcosa al suo tecnico lo invitava a casa o lo aspettava fuori al Centro Paradiso di Soccavo. Corbelli, dal canto suo, fece come Houdini e non fu più visto in giro. Il Napoli finì per darsi all’ippica con Salvatore Naldi, un personaggio che di calcio capiva quanto il fatturato dei suoi alberghi che rischiarono di prosciugarsi se la famiglia non lo avesse fermato in tempo e se il Napoli non fosse finito a Porta Capuana. Naldi diede la panchina a Franco Colomba, disastro. La affidò a Scoglio, medio disastro ed ancora a Colomba che fu salvato dai rigori di Dionigi.
Il mercato e la Tunisia
In quel torneo D’Angelo era arrivato dal Chievo con le liste di gennaio ed aveva giocato la prima partita il 18 gennaio 2003 contro il Messina (1 a 0, rete di Stellone). Il Napoli era stato affidato da poco a Franco Scoglio che, per ritrovare unità e serenità, aveva portato la squadra per otto giorni in ritiro in Tunisia. Gli allenamenti, la tranquillità, le cene di Carmando e il brindisi al nuovo anno furono i momenti salienti di quella full immersion voluta dal “Professore”.
In quella sessione di mercato ci fu un’infornata di nuovi acquisti per risollevare le sorti della squadra, da Montervino a Manitta, da Pasino a Martinez, da Savino a Marcolin. D’Angelo indossò il numero 33 della famosa maglia simil-Argentina, sponsor Peroni, sponsor tecnico Diadora e sembrava la copia mal riuscita di Savicevic.
Saudade?
Dalla partita d’esordio in poi fu titolare quasi inamovibile giocando sia sulla fascia sinistra che da centrale difensivo. Alla fine totalizzò 15 presenze (con 5 sconfitte, 3 pari e 7 vittorie, non male come bilancio personale) e poi successe una cosa strana. Gli venne la malinconia di Verona. Un napoletano che ha la nostalgia per una città che non è la sua?
È possibile, certo che lo è. Il nostro era così inserito nella realtà veneta che la sua esperienza a Napoli la si può considerare una ‘scappatella’ più che un ritorno alle radici. D’Angelo fece il processo inverso, da emigrante tornò e da emigrante ritornò da dove lo aveva spedito il mittente. Maurizio D’Angelo, napoletano di Posillipo, non aveva mai giocato con la maglia della squadra della sua città, era veramente un emigrante del pallone, di quelli che pensano, e a volte riescono, a trovare fortuna lontano dal Vesuvio.
La storia, e un destino segnato
Arrivò, quindi, a Napoli a 34 anni suonati, venne a svecchiare dopo che al Chievo, con il quale aveva giocato una vita, sembrava chiuso da Legrottaglie, il nuovo che avanza. Il difensore aveva esordito nel 1987-8 nel Valdagno, in Interregionale, uno stipendio sicuro. Lontano dalla sua Napoli. Poi conobbe il gialloblu del Chievo e fu amore a prima vista. Ancora lontano da Napoli. Qui diventò una vera bandiera e alla fine, prima del trasferimento in riva al Golfo, ci aveva già giocato 14 anni, compreso una parentesi nel Derthona.
Che successe dopo l’esperienza negativa con gli azzurri? Naturalmente tornò al Chievo, a chiudere la carriera con una sola, beffarda, presenza. Lontano da Napoli, inutile rimarcarlo. In barba a quelli che dissero che non aveva saputo resistere al richiamo della sua città. I numeri dicono 333 presenze con la maglia dei clivensi e due reti, giocatore che rimane nella “Hall of fame” dei Paluani boys. Capitano, anima, uomo di fiducia di Campedelli, perfino allenatore quando la squadra è stata in difficoltà, D’Angelo ha dato tutto per gli scaligeri ed è stato la prova lampante che ci sono giocatori ed allenatori che sembrano funzionare solo in un posto. Lui, napoletano, lontano da Verona proprio non riusciva a stare. “Luntano a te nun se pò sta'”.
In questo triste contesto si trovò ad operare Maurizio D’Angelo, oggi vice di Filippo Inzaghi al Venezia. Evidentemente lo stadio della sua ultima partita con gli azzurri era già segnato nel suo destino professionale.