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Franco Roberti e la sindrome di Grimilde che assilla il Sud: «Come con Gomorra, preferiamo non vedere»

Franco Roberti e la sindrome di Grimilde che assilla il Sud: «Come con Gomorra, preferiamo non vedere»

C’è un alfabeto per comprendere la vita italiana degli ultimi cinquant’anni nel libro “Il contrario della paura” scritto per la collana “Strade Blu” di Mondadori (176 pagine) dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti con il giornalista di Repubblica Giuliano Foschini.

Si tratta di una lezione per entrare nella storia del nostro paese mediante l’analisi del fenomeno criminale, essenzialmente mafioso, ma oggi anche terroristico. Roberti spiega non solo i dispositivi con cui agiscono la mafia e il terrorismo islamico dei mesi recenti (peraltro con insospettabili punti di contatto), ma soprattutto le ragioni per le quali si generano le esperienze più violente e illegali che intrecciano il potere costituito e si manifestano a loro volta come espressioni di potere. 

Su tutte le concause che alimentano mafia e terrorismo, esiste una comune origine nelle diseguaglianze sociali, negli interstizi delle quali nascono povertà, ignoranza e violenza. L’autore ricorda le parole del colonnello Anceschi che chiosarono un trionfalistico discorso di Mussolini per aver debellato nel 1926 con arresti, pene e condanne esemplari, la camorra dei Mazzoni in Terra di Lavoro:  “… bisogna costruire strade, scuole, una rete idrica, dare occupazione alla gente, perché sennò il fenomeno si riprodurrà”. Parole di scottante attualità a quasi un secolo di distanza.

La tesi di fondo del libro è che le mafie non sono una realtà da fronteggiare solo in termini repressivi, ma soprattutto con politiche di prevenzione a tutti i livelli. Per questo si parla della necessità di nuovi “maestri della cultura dei diritti” e non è un caso che, pescando nel passato per additare esempi di questo genere, Franco Roberti riproponga una lettera di Giuseppe Di Vittorio, fondatore della Cgil, che resistette alla corruzione restituendo al mittente l’omaggio di un cesto natalizio inviatogli dal latifondista Conte Pavoncelli: “Non basta l’intima coscienza della propria onestà. Serve anche l’onestá esteriore”. Non è un caso, dicevamo, questa citazione del padre delle lotte dei lavoratori: solo il lavoro può eradicare la mafia.

Nel libro si rivela tutta la competenza specialistica del procuratore che parla un linguaggio semplice ed efficace, che arriva a tutti: la mafia è un delitto contro la democrazia, è un fenomeno di relazione, esiste in quanto esiste il suo rapporto con le istituzioni, in una logica parassitaria, vero freno dello sviluppo; la corruzione è un reato contro l’economia, altera la concorrenza e mette in difficoltà le aziende sane; per vincere il terrorismo islamico occorre una “deradicalizzazione” dei musulmani che vivono in Europa; il narcotraffico ha prodotto il riciclaggio di circa 9.200 miliardi di euro in vent’anni (quasi il pil della Cina nel 2013 e sei volte il pil italiano).

Roberti narra queste cose percorrendo la storia d’Italia  e in particolare quella dagli anni ’70 ad oggi, svelando segreti (caso Cirillo) e aneddoti (dal rapporto personale di forte amicizia con Giovani Falcone, del quale racconta la prima telefonata, ai “faccia a faccia” con boss della camorra), spiegando le differenze fra Cosa Nostra, camorra, n’drangheta e mafia capitale, mostrando sempre un grande credo nel valore della Giustizia. C’è una frase, detta en passant, che rivela il carattere dell’autore sotto questo profilo: “Vivo sotto scorta”. Da trent’anni. È scritta senza enfasi, senza ostentazione, senza quel retropensiero di chi lo dice in uno per lamentarsi, farsi compatire e ammirare. È scritta con la coscienza del dovere punto e basta.

Ci sono pagine di riflessione acuta sul rapporto fra diritto e tecnologia nel nuovo conflitto fra privacy e sicurezza creato dagli attentati dei foreign fighters e loro fratelli; vi sono ricordi commossi degli anni al Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi all’epoca del terremoto dell’Irpinia, dove ebbe la prima volta la percezione di cosa fosse la mafia (una “cappa” – scrive Roberti – un’enorme nuvole di polvere che che copre la città, che impedisce di respirare, che soffoca, che fa bagnare gli occhi di lacrime, che costringe a parlare con la bocca impastata…); non mancano spiegazioni sociologiche sui clan e del loro modo di agire (come “agenzie di servizi”), sul “pozzo nero” degli appalti, sulla figura dei “facilitatori” nel mondo degli affari e dei “colletti bianchi”.

Ma l’invenzione letteraria di questo libro è la “Sindrome di Grimilde” alla quale è dedicato un intero capitolo dei ventuno che lo compongono (peraltro dai titoli a loro volta accattivanti fra i quali: Paura e Libertà, La Piovra, L’antimafia e L’antimafia del malaffare). A ben guardare la Sindrome di Grimilde pervade tutto il volume nell’esigenza etico-sociale di “sgonfiare la bolla dell’omertà” di fronte a un certo tipo di criminalità alla quale, grazie alla “spendita della fama”, non serve sparare, ma basta esistere. Grimilde è la strega della favola di Biancaneve: alcune donne che non si piacciono (spesso anche per piccole imperfezioni del loro corpo) non si guardano allo specchio, per non essere messe di fronte alla realtà. Si tratta di “uno strumento di difesa che però impedisce una risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure per apparire migliore”. Questa patologia si ritrova nella società italiana, e meridionale in particolare, ed è un freno al contrasto alle mafie proprio perché impedisce di prendere vera coscienza della realtà. È quello che è accaduto lo scorso anno quando hanno dato addosso alla presidente della commissione antimafia Rosi Bindi la quale ha aderito alla tesi, che Roberti sostiene da molto prima di quelle dichiarazioni, secondo cui “le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale”. È quello che sta accadendo anche in questi ultimi giorni a proposito delle critiche alla fiction di Gomorra (definita da alcuni critici un “errore narrativo”) e che invece l’autore di questo libro difende: «È un altro pezzo della Sindrome di Grimilde: non vogliamo guardarci allo specchio? Gomorra fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo”.

Se non si comprende la Sindrome di Grimilde non si capisce nemmeno il titolo dell’opera: qual è il contrario della paura? “Amo particolarmente – scrive Roberti – una frase di Albert Camus, che scrisse nei Taccuini: l’unica libertà per la quale sarei disposto a battermi veramente è la libertà di non mentire mai”. A Paolo Borsellino in una intervista televisiva chiesero quale fosse il contrario del coraggio ed egli rispose: non è la paura, ma la viltá. Per converso, Franco Roberti appare rispondere alla domanda reciproca su che cosa sia il contrario della paura: non il coraggio, ma la verità. E in un’altra parte del libro si sofferma sui rapporti fra verità è fiducia quali elementi fondanti della comunità umana. L’ultima riga del suo libro, svelando l’enigma del titolo, trae fuori dall’intimo dell’autore l’imperativo di una vita, lo stesso imperativo a cui obbediva un giovane magistrato ai tempi del del post-terremoto in un piccolo tribunale irpino, lo stesso imperativo che ha guidato colui ha sconfitto il Clan dei Casalesi, lo stesso imperativo per cui lotta oggi il Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, lo stesso imperativo scritto nel vecchio codice di procedura penale per il giudice istruttore e il pm: accertare la verità.

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