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Careca: «Dal calcio meritavo di più, il Napoli perse lo scudetto del 1988 per la rosa corta»

Careca: «Dal calcio meritavo di più, il Napoli perse lo scudetto del 1988 per la rosa corta»

In effetti non so come introdurre questa intervista. Per altro non la chiamerei nemmeno intervista, la definirei più una chiacchierata, una conversazione nel migliore dei casi. Una conversazione con Careca. Potrebbe andare anche come titolo.

La cosa che sapevo per certa da tempo era che lui viveva a Campinas, città nelle immediate vicinanze di São Paulo, dove dirige una scuola di calcio. Ad ogni modo tutto è nato quasi per caso, con una frase buttata là, un po di sagacia femminile e una coincidenza fortunata.

– Sai una cosa?

O que?

– Mi piacerebbe conoscere Antonio de Oliveira Filho detto Careca. Sai chi è, no?

– Veramente, não.

– Ma come? Uno dei più grandi attaccanti della storia del calcio brasiliano!

– Si vabé, ma se lo “voi” conoscere, porque no lo chiami e vai?

Quello che vuole conoscere Careca ovviamente sono io e la frase buttata li è la mia. L’altra voce è quella di B., la mia compagna brasiliana. Sua è la sagacia. La coincidenza fortunata, e a questo punto ovvia, è che mi trovavo in Brasile. A Brasilia più precisamente, la capitale, nel bel mezzo del caos politico tra impeachment a Dilma e scandalo Petrobras. Il resto è B. che prende il suo Mac, cerca Careca+Campinas su Google e in circa dieci secondi mi sta chiedendo cosa scrivere in portoghese nella mail che stiamo per inviare al Careca Sport Center. 

Non vi sto a tediare con la valanga di emozioni che si sono succedute nelle successive 48 ore entro le quali Careca, alla fine della catena, mi ha inviato il suo numero di telefono ed io l’ho chiamato. Sono le stesse emozioni che avrebbe provato chiunque di voi, soprattutto se memore degli anni della Coppa Uefa e del secondo scudetto. Uah, Careca…

Questo il martedì. Il giovedì alle 13:15 ora di São Paulo atterro a Viracopos, l’aeroporto di Campinas, la città dove giocano Guarani e Ponte Petra, emozionato ancora, si, ma con quella strana sensazione di rilassamento, come quando si va a trovare un vecchio amico. L’appuntamento è per il pomeriggio del giorno stesso. Si prospetta davanti a me una tremenda sequenza di taxi. Dall’aeroporto al Monreale Hotel; dal  Monreale Hotel al Careca Sport Center fuori città; dal  Careca Sport Center al Monreale hotel.

Già sul primo taxi la fatidica domanda: «O que faz aqui? Che ci fai qui?».  Tipo il fiorino di Non ci resta che piangere. Si ma quanti siete? Un Fiorino!

Insomma, che ci fai qui? La domanda legittima di un autoctono ad un forestiero. Me l’aspettavo, così come mi aspettavo la reazione da parte del tassista. Una cosa del tipo:

Fabrizio: sono qui per intervistare Antonio Careca!

Tassista in preda all’entusiasmo: “Bacana! O grande Careca! O grande atacante do Guarani e do Napoli! Bacana! Que sortudo e’ voce!”

Invece la risposta è stata: «Eu não gosto muito de futebol». Mi piacciono di più i motori.

Prima amarezza.

Sul secondo taxi che mi portava proprio al Careca Sport Center stesso rituale.

T. O que faz aqui?
F. Vou entrevistar o Careca.
T. Careca?
F. O jogador de futebol, do Guarani, do Napoli, da Seleção…
T. Ah sim… Eu lembro… Cioè, Ah si… mi ricordo, ma con quel tono che in realtà non si ricordava.

Seconda amarezza.

Arrivo però al centro sportivo immerso nel verde, chiedo un po’ in giro, spiego chi sono e che voglio, e vengo accolto da Almeidinha, ex giocatore del Guarani negli anni ’80, uno di quelli che non hanno fatto carriera, un amico di vecchia data che Careca ha assunto nel suo centro ad allenare i ragazzini. Ce ne siamo andati un po’ in giro, Almeidinha ed io, mentre lui mi raccontava di quando giocava insieme a Careca nel piccolo Guarani di Campinas, di quanto era forte Antonio e di quando se lo comprò il Sao Paulo, mentre lui rimaneva li a Campinas.

 

Il centro sportivo è enorme e in espansione: ci sono quattro campi di calcio di diverse dimensioni; campi da tennis, beach volley e un training field per il golf. Poi una palestra, una piscina, sale per il Pilates. Tutto in mezzo alle palme. L’attesa é durata comunque poco. Me lo viene a dire il guardiano, un po’ come a Napoli: è arrivato. Lo cerco ma non lo trovo. Credo che per un po’ ci siamo inseguiti in giro per il centro sportivo. Poi finalmente lo vedo. Al bar. In tuta nera e t-shirt grigia e scarpe da ginnastica. In forma come sempre. Careca!

Ho fatto finta di non essere emozionato, ma penso si vedesse. Con una caipirinha fatta bene a testa, ci siamo seduti ad un tavolino, mentre la radio del bar mandava musica rock in sottofondo e in tv le immagini della semifinale di coppa Uefa tra Sevilla e Shakhtar Donetsk. La conversazione è stata piacevole e aperta. Careca è un amico dei napoletani e lo ha dimostrato con la gentilezza con cui si è reso disponibile, spostando i suoi impegni per incastrare me. Per la cronaca, al telefono mi aveva concesso mezz’ora. Alla fine siamo stati due ore a chiacchierare. Confesso che mi sono sentito un po’ come Gianni Minà.

Sono venuti fuori diversi argomenti interessanti, come gli inizi folgoranti della sua carriera, le vittorie, i ricordi, i personaggi e una serie di considerazioni sulla sua carriera. Tante cose che non sapevo di questo campione amatissimo, e forse mai abbastanza “esplorato”. Da tifoso del Napoli, una serata indimenticabile.

Il terzo taxi, quello del ritorno in albergo non lo prendo proprio per fortuna, perché Antonio mi offre un passaggio sulla sua Chrysler. Mentre chiacchieriamo nel traffico di Campinas, e scherziamo sul culone di Higuain, rifletto su alcune sue considerazioni. Le fredde reazioni dei tassisti alla mia rivelazione su Careca che mi hanno tanto colpito – e il tassista Hotel-Aeroporto del giorno dopo avrebbe confermato l’assioma – fanno il paio con la critica che lui stesso fa della propria carriera. Careca ritiene che, proporzionato al suo impegno, al suo sacrificio, alla sua dedizione ai club e alla Seleção, il ritorno in termini di fama, riconoscimenti delle federazioni e in termini di denaro non sia stato quello che lui avrebbe meritato.

Forse è per questo, mi dico, che Careca ama Napoli e i napoletani come fossero una seconda casa, una seconda famiglia. Napoli è il luogo speciale della sua vita dove probabilmente ha ricevuto quel giusto ritorno di affetto e di eterna riconoscenza che lui merita.

Prima di salutarmi mi lascia ad una churrasqueria di sua fiducia, O Carro De Boi (Il carro di buoi), per l’esattezza una costeleria.  Qua sanno chi è Careca! In tv danno l’andata del secondo turno di Copa do Brasil. Il Ponte Preta, rivale del Guarani, gioca nello stato di Rondônia, in piena foresta amazzonica, contro lo Sport Club Genus de Porto Velho il cui stadio è poco più di un campo di interregionale delle parti nostre, con un muro di cinta alto e grigio che chiude tre lati del campo. E così mentre addento la mia succulenta costela de boi, Felipe Azevedo segna per il Ponte Preta…

Mi racconti i tuoi inizi nel calcio?

Io sono di Araraquara, una città a circa 200km da Campinas. È una città piccola, ma è sempre stata piena di giovani talenti perché era una zona di campagna, piena di campi. Ora la città è cresciuta, ma continua a produrre buoni giocatori. Ho cominciato giocando da piccolo per strada, a 5, 6 anni. A 15 anni sono venuto a Campinas per fare quella che noi chiamiamo peneira, un provino.

Al provino, mi ha portato un certo Creca (proprio così, come Careca ma senza la A). Era uno che aveva giocato, ma non tantissimo, nel Guarani, arrivando fino all’Under 20. Siccome anche lui era di Araraquara, capitava che giocassimo insieme nel campeonato de amadores della città. Lui mi ha notato e mi ha segnalato al Guarani, che poi mi ha invitato per il provino. Creca mi ha accompagnato a Campinas e poi mi ha lasciato lì. Tra l’altro, era di chiare origine italiane, il suo cognome era Fiocchi.

C’erano più di ottocento ragazzini. E lì, in due giorni, devi dimostrare qualcosa di diverso. Dunque, è difficile. Io alla fine sono rimasto una settimana. In genere, il provino dura uno o due giorni al massimo. Io ho superato i due provini, mi hanno tenuto lì una settimana e poi mi hanno mandato a casa per tornare a Campinas con i documenti per firmare il contratto.

Il Guarani ha sempre curato molto il settore giovanile, sia gli Under 15 che gli Under 20, facendo venire ragazzi da ogni parte del Brasile. Oggi il club è un po’ in difficoltà, hanno dovuto addirittura mettere in vendita lo stadio, c’è un contenzioso tra due acquirenti, e ancora non si sa come andrà a finire. È un peccato, perché il Guarani è sempre stata una piccola società, ma è anche sempre stata una delle principali squadre del campeonato paulista, insieme a São Paulo, Palmeiras e Corinthians. Oggi il Guarani milita in serie C, per quanto riguarda il campeonato brasileiro, e in serie B per quanto riguarda il campeonato paulista.

C’è stato un momento quando eri ragazzino, in cui hai capito di avere talento? Esiste un momento del genere nell’infanzia di un calciatore?

(Sorride) I giocatori fuori classe, geniali, lo sentono già da piccoli. Senti il dono, quella qualità che ti ha regalato Dio alla nascita. Poi con il lavoro si migliora la parte tecnico-tattica. Ma comunque quando ero giovane giocavo per strada, esisteva solo la tecnica, non c’era tattica, era solo un fatto di capacità. Poi se riesci ad arrivare in una squadra che ha delle buone strutture, un preparatore atletico, un allenatore, allora cresci. Se un giocatore ha già delle qualità, diventa rapido, fa la differenza sicuramente. Da come fa un passe, un tiro in porta, tu lo vedi subito… Solo da come stoppa la palla vedi che è diverso.

 

Tutto quello che hai vinto in carriera è costato fatica e impegno. In Brasile tu hai giocato e vinto con Guarani (1978/1982) e São Paulo (1983/1987). Il campionato vinto con il Guarani nel ’78 però è forse un’impresa storica…

Si. A parte le vittorie col Napoli negli anni ottanta, la vittoria del campionato brasiliano col Guarani resta il più grande risultato della mia carriera. Perché ho iniziato quel campionato a sedici anni e l’ho vinto a diciassette, in una squadra piccola in un campionato fortissimo. Abbiamo vinto anche una taça de prata, un trofeo d’argento, la Copa do Brasil. Tra l’altro il Guarani è ancora l’unica squadra do interior (di campagna) ad aver mai vinto un campionato nazionale. Abbiamo giocato e vinto partite contro l’Internacional di Falcão, il Flamengo e il Vasco al Maracanã, la Fluminense, il São Paulo, il Santos e il Palmeiras in finale. Nella finale di andata contro il Palmeiras mi procurai il rigore dell’uno a zero siglato poi da Zenon. Al ritorno pure vincemmo uno a zero. Segnai io il gol della vittoria definitiva. Eravamo una bella squadra. C’erano diversi giocatori  che non avevano un “nome” ma che erano fortissimi e che poi hanno fatto carriera, qualcuno è finito in nazionale.

Il Guarani di Carlos Alberto Silva nel ’78, il Verona di Bagnoli ed Elkjaer nel 1985, oggi il Leicester di Ranieri. Sono le vittorie delle piccole squadre che danno al calcio la dimensione più popolare ed epica. Che ne pensi?

Queste vittorie sono costruite sullo spogliatoio, quando c’è un senso di famiglia, è lì dove si costruisce qualcosa di differente. Sono cose che succedono di rado, è difficile che l’anno prossimo il Leicester torni ad essere campione, muito difícil. Ma quando c’è questo tipo di allenatore, quando i giocatori capiscono la gioia di stare insieme in campo e fuori, con la famiglia, con l’obiettivo di fare la storia come abbiamo fatto noi nel ’78, allora può accadere di tutto. Abbiamo fatto bene anche nel ’79, siamo arrivati sesti.  Sicuramente quello che hanno fatto Ranieri e il Leicester, o quello che fece il Verona, è stato costruire uno spogliatoio, una famiglia. Perché quando vai in campo, magari hai un giocatore geniale, ma gli altri sono sullo stesso livello. Allora se ci metti l’anima, il cuore e la determinazione e c’è una famiglia che va in campo si può vincere. Claudio ha questo stile. Abbiamo lavorato a Napoli e già allora gli piaceva stare con i giocatori, le loro famiglie, a casa sua o in pizzeria. Sono cose importanti. Sicuramente è successo questo. Questo ha fatto la differenza.

 

Veniamo al Napoli. Com’è nato il tuo trasferimento al Napoli.

Io sono venuto a Napoli per realizzare il sogno di giocare accanto a Diego. Mi volevano in Francia, il Toro, anche il Real. Io volevo giocare a Napoli. Alla fine mi stava prendendo oggi al Torino. In quel periodo però Moggi stava passando al Napoli e Leo Junior, che stava nel Toro, mi disse di aspettare prima di firmare coi granata, perché forse poteva succedere che Luciano mi avrebbe portato a Napoli. Era tutto ciò che volevo! (ride)

A Napoli la gioia era avere Diego a giocare con noi, uno che in qualunque istante ti poteva cambiare la partita, ti inventava una cosa che tu dicevi: caço, ma come ha fatto? (ride).

Nel Napoli arrivò Alemão, c’era Salvatore Bagni che era stato anche in Nazionale, De Napoli, c’era Garella che era un portiere strano ma sapeva parare, c’erano giocatori all’inizio della carriera come Ciro (Ferrara), poi c’era Bruno Giordano. Con Andrea Carnevale abbiamo vinto il secondo scudetto, si, ma la MaGiCa per me è stato uno degli attacchi più forti della storia. Mi sono divertito molto quell’anno, anche se non abbiamo vinto. Per me Bruno è stato l’attaccante italiano più forte che ho conosciuto. Qui in Brasile, durante il Mondiale del ’78 c’era un giocatore che si chiamava Reinaldo, José Reinaldo de Lima, il più grande attaccante dell’Atletico Mineiro. In quella seleção giocava accanto a Roberto Dinamite, un altro che ha fatto un sacco di gol. Quando conobbi Giordano dissi: “Mamma mia, è identico a Reinaldo!”. Come biotipo, come si muoveva, assomigliava tantissimo a lui.

Un peccato solo che non sia venuto anche Leo. Con lui quello scudetto non ci scappava (l’87/88 ndr). Quell’anno alla fine non ne avevamo più. Non ci siamo venduti niente. Sono caz*ate. Non ha prezzo uno scudetto. Conoscevo bene Bagni, Bruno che alla fine della carriera voleva vincere. La cosa fu che fisicamente eravamo stanchissimi e la rosa era troppo corta.

Mi dispiacque molto per la coppa dei Campioni. Lì fummo inesperti. Ma siamo stati sfigati, caço, beccare il Real al primo turno! Poi non giocai l’andata al Bernabeu per infortunio… Peccato…

Negli ultimi anni Napoli e Roma hanno fatto campionati eccezionali, superando anche gli ottanta punti. Eppure la Juventus sembra imbattibile.

Non è la prima volta che dico questo. La Juve ha una settore difensivo fortissimo. Ha una grande regularidade, prende pochissimi gol. Non hanno perso quello stile impostato da Antonio Conte di menare per novanta munti, non mollare mai,con cui alla fine vinci uno a zero, due a uno. Così come è successo col Napoli. Quest’anno avevamo due punti di vantaggio, abbiamo fatto la partita come per gestire lo scudetto, ma alla fine Zaza ci ha fregati. La Juve è così, ha aspettato il Napoli e appena ha avuto l’occasione ha fatto gol. È sempre stata così, sulla fase difensiva quasi perfetta. E poi hanno un portiere fenomenale che forse giocherà pure il prossimo mondiale.

A proposito di gente con la carriera lunga, tu ne sai qualcosa…

Io ho giocato fino ai trentasette anni perché ho avuto due interventi ai piedi; mi facevano troppo male. Altrimenti giocavo fino ai quarantadue, quarantatré. Ho lasciato il Napoli nel ’93 per andare in Giappone al Kashiwa Reysol fino al dicembre del ’96. Poi ho fatto un anno al Santos. E per finire qui, nel Campinas che ho fondato io. Però la partita di addio del ’99 l’ho fatta a Napoli perché il povo napolitano lo meritava. Quella partita ho deciso di non farla qua in Brasile, ma al San Paolo come riconoscimento alla città, perché è stata per me più importante di molte mie esperienze in Brasile. Mi sono trovato troppo bene. Vennero Cafu, Amoroso, Aldair, Cerezo, simpaticissimo. Lo stesso giorno ha nevicato sul Vesuvio! Putana Eva! E nonostante il freddo c’erano cinquantamila persone! (rid

Arrigo Sacchi, che tu conosci bene…

Eh!.. (ride, rido anche io)

Sacchi dice che noi napoletani non abbiamo una mentalità vincente.

Il fatto è che abbiamo vinto poco. Abbiamo avuto in Ferlaino un grande presidente. Ha avuto la ousadia (il coraggio di osare) di prendere Maradona. Poi ha preso me e Alemão, poi altri. Ma purtroppo non ha dato continuità al progetto. A parte il limite che c’era sugli stranieri bisognava magari insistere sul mercato italiano. Insomma non c’è stato ricambio e quindi eravamo una rosa di tredici, quattordici giocatori. Uno scudetto puoi anche vincerlo, ma mantenere una situazione vincente è difficile. Anche dopo i problemi che ha avuto Diego, c’era Zola, venne Fonseca, ma non bastava.

In un campionato forte come la Serie A, molto di contatto, quando poi c’è la Coppa Uefa e la Coppa Italia, serve la rosa. Non ho niente contro Ferlaino, anzi lo ringrazio sempre. Ma mi sarebbe piaciuto vedere al Napoli un riccone come Berlusconi, che comprava quello che gli pareva come un pazzo, e vedere cosa succedeva! (ride)

Il Milan aveva una rosa di 20/22 giocatori. A parte gli olandesi poi in panchina avevano molti giocatori interessanti come Massaro, Evani, Virdis, Marco Simone…

Si ma Sacchi ce l’ha con l’ambiente napoletano, con la tifoseria…

Ma sui tifosi che ti devo dire? Con quello che hanno dato a noi! Lo stadio era sempre pieno. A Torino il Comunale era mezzo azzurro, a Stoccarda c’erano trentamila napoletani! Il presidente Ferlaino, che resta il più grande della storia del Napoli, ha mancato di una visione d’anticipo, di prospettiva. E quindi sono venuti anni incasinati.

De Laurentiis sembra avere i piedi ben piantati per terra. Ho parlato tante volte con lui, collaborerei volentieri, ma lui pecca sempre con lo stesso problema: avere una rosa di qualità, ma ristretta. Meno male che Higuain ha fatto tantissimi gol e che non si è infortunato. A centrocampo ci sono i due brasiliani Allan e Jorginho; sono bravi ma leggeri. Forse manca un po di cattiveria, la “cazzimma”. Manca quell’essere cascudos, più cattivi. Serve uno che va a litigare. Noi diciamo uno “sceriffo”, come nei film americani! (fa la voce da John Wayne) Quello che ha l’attitudine al comando, quello che si prende le responsabilità. Un po’ quello che manca alla Seleção.

Arriva una telefonata: sono dodici mesi che sta dietro a certe faccende per la costruzione di un complesso residenziale nel terreno di sua proprietà accanto al centro sportivo.

Ecco, il Brasile. Come vedi la Seleção? L’ultimo mondiale è stato un disastro.

Al mondiale brasiliano i ragazzi avevano una grande responsabilità. Dovevano vincere. Lo stesso tecnico Scolari aveva detto che il minimo era uscire dal torneo con la coppa. Secondo me non era così. C’erano nazionali più preparate. E con la Germania meno male che loro hanno avuto pietà perché solo nel primo tempo potevamo essere sotto di sette. Come sul campo dei bambini quando il primo tempo virava che già perdevi dieci a zero! E stata una vergogna per tutta l’organizzazione, la guida tecnica, la federazione. I giocatori emozionalmente hanno ballato. Peccato. Dopo la Germania anche con l’Olanda, al Mané Garrincha di Brasilia, abbiamo fatto un’altra figuraccia.

Se non mi sbaglio, dei giocatori titolari solo uno giocava in Brasile, Fred. Di quei titolari una metà faceva la panchina in Europa. Senza ritmo, senza niente. I brasiliani soffrono la mentalità europea. Ai giocatori manca lo spirito che c’è in Europa, che la partita dura novanta minuti. Non serve fare il fenomeno per dieci minuti. Quando vanno in campo la tecnica c’è, ma manca lo spirito di competizione per novanta minuti.

Neymar, che secondo me è un fenomeno, sta imparando questo: che bisogna essere più concreti, non bisogna fare firula (virtuosismi inutili). Ma per vincere è fondamentale fare una partita di mentalità senza la palla, di applicazione tattica, senza dimenticarci quelle che sono le caratteristiche di fantasia del nostro calcio. Ti dico una cosa. Durante il Mondiale sono venuti un sacco di argentini. A parte che qui in Brasile ce ne sono tantissimi, come a Santa Catarina. Si sono sentiti in casa. A me piacciono gli argentini perché sono più di carattere, di personalità che i brasiliani.

Gli amici qui si arrabbiano ma io dico sempre che noi dovremmo avere due o tre gocce di sangue argentino da mischiare al nostro. Dovremmo essere più de brigar (aggressivi). E’ un fatto di mentalità. Conosco bene gli argentini, anche per via di Diego.

Se ti può consolare anche l’Italia non fece una grande figura quell’anno…

Si,pessima. Peccato perché vidi un amichevole tra Italia e Fluminense. In attacco giocavano Immobile e Insigne. Finì 5 a 3 per l’Italia e fu una partita divertente, i ragazzi italiani mi fecero una buona impressione. Immobile fece una grande prestazione. Ma poi al Mondiale hanno giocato i vecchi.

Vabbè, visto che l’hai citato ancora, te lo chiedo: meglio Pelé o Maradona?

L’ho detto quando la Fifa fece il sondaggio su internet, uscì Maradona e poi loro cambiarono al volo per Pelé. A parte che la Fifa non capisce niente di calcio, mi intervistò un giornale cileno e io dissi: Pelé ha fatto un sacco di gol, calciava di destro e sinistro, era forte di testa, si allenava tutti i giorni e la domenica giocava. Era un atleta. Che senso ha fare un paragone con Maradona che quando andava bene si allenava una, due volte la settimana, usava solo il sinistro, aveva difficoltà di testa! Figurati se Maradona si fosse allenato tutti i giorni e avesse calciato di destro! Ma caço è molto, ma molto meglio di Pelé! Quando Diego si allenava due, tre volte vincevamo tre, quattro a zero, quando si allenava un giorno vincevamo uno a zero, due a uno. (ride)

La verità è che Maradona nella nostra epoca è stato il migliore di tutti, ma non si può fare una comparazione tra i due, sono epoche differenti. Alla fine sono solo stupidaggini, stupidaggini della Fifa. La Fifa poteva evitare questo tipo di confronto.

Come mai non hai giocato il mondiale del ’94? Eri ancora in piena attività e avevi solo 33 anni…

Nel ’93, durante le qualificazioni, ho avuto problemi con dei giornalisti. Avevamo pareggiato zero a zero con l’Ecuador a Guayaquil. Per i giornali avevamo già difficoltà nel qualificarci. Hanno cominciato a criticarci. Dicevano che io ero vecchio a 32 anni, e così Dunga e Branco. Io mi sono incazzato. Sono quasi arrivato alle mani con Mario Sergio (ex-giocatore e commentatore televisivo, ndr): mi rispose che se non scriveva male non lo pagavano! Io mi sono rotto, non mi sono sentito tutelato, e così ho lasciato. Il CT era Parreira. Gli dissi: «Lo so che voi mi avete chiamato, ma sento la responsabilità di portare critiche alla nazionale». Alla fine hanno convocato Romario anche su pressione di Ricardo Teixeira (l’allora Presiden della Federazione Brasiliana).

Quindi si, avrei potuto essere in quel Brasile campione. E si, è una cosa che mi è mancata. Ti dico una cosa, ci sono giocatori che non hanno giocato un minuto e hanno vinto il mondiale. Io sono sempre stato critico su questo punto: quello che ho guadagnato in termini di soldi e fama è stato poco a fronte della mia mentalità, della mia intensità, della mia fidelidade per il club con cui stavo, che fosse il Guarani, il São Paulo o la Seleção. Sento che eu joguei muito mais do que ganhei. Me doei. Eu vestia a camisa! (Mi sono dato al calcio più di quanto il calcio non mi abbia dato. Mi sono donato al calcio. Vestivo la maglia come una seconda pelle!). Ho guadagnato poco per quello che mi sacrificavo. In nazionale ho passato 12 anni! 12 anni! Sono stato sfortunato però. Nell’82 mi sono strappato l’adduttore quattro giorni prima del Mondiale. Nell’86 eravamo fortissimi e siamo andati fuori con la Francia ai rigori.

Nel ’90 abbiamo fatto una delle partite più belle contro l’Argentina, ma sonnifero a parte, Lazaroni ha sbagliato la partita.

Quella fu una brutta storia eh…

Erano due squadre forti. Molti di noi avevano giocato la Libertadores, che al tempo era un torneo durissimo; oggi no, è più tranquilla. C’erano squadre argentine e uruguaiane che menavano per novanta minuti. Quando col São Paulo andavamo in trasferta, in stadi di fuoco tra Uruguay, Argentina, Cile, dovevamo menare solo per arrivare negli spogliatoi!

E questa era una cosa legittima. Finché sul campo mi dai un calcio o una gomitata, ci sta. Ma usare mezzi che non hanno niente a che vedere col calcio, non ha senso.

A Branco girava la testa. Lui pensava che fosse il caldo. «Mi gira la testa» diceva «ho le gambe molli». Magari gli è mancata la lucidità di dire “non sto bene resto fuori”. Poi tra di noi c’erano almeno quindici giocatori che giocavano in Italia, ci si conosceva tutti… ma non ce l’ho con Diego.

Alla fine sbagliò Lazaroni. Io e Alemão gli dicevamo che bisognava marcarlo a uomo, ma lui niente, voleva marcare a zona. Cambiò la nostra disposizione classica che era un 4-3-3 o 4-4-2. Aveva appena firmato per la Fiorentina e doveva dimostrare qualcosa o fare degli esperimenti. Fatto sta che ci faceva giocare con la difesa a tre; noi avevamo sempre giocato con due centrali! Io e Alemão glielo dicevamo: finché non arriva la palla a Diego l’Argentina è una squadra normale. Ma se la palla ce l’ha lui allora “stamm nguaiat!” (ride).

Molti giocatori sudamericani tra gli anni settanta e ottanta hanno giocato in un’epoca in cui le dittature militari erano il regime più diffuso. Hai mai avuto la sensazione di essere strumentalizzato politicamente? E come percepivi giocatori come Sócrates che facevano politica in campo?

Io mi sono sempre tenuto fuori dalla politica. C’era Sócrates all’epoca con la Democrazia Corinthiana, ma io non ne rimasi influenzato. Io vengo da un’altra cultura. La Democrazia è quando ti si lascia lo spazio per agire, per la tua libertà. E’ sacrosanta. Ma poi devi fare “i lavori di casa”. La cosa che ho imparato dai miei è che per tenere in piedi una famiglia devi rispettare le regole, devi lavorare. Non serve fare polemica.

Io ho avuto un’amicizia con Sócrates sia nel campo che fuori. Ma sulla politica, sulla militanza, non ci siamo mai presi. Lasciavo politica e sport separati, anche perché molta gente usava e usa il calcio, attraverso i media, e a me non piace essere strumentalizzato. Io volevo divertirmi giocando a calcio, anche perché era il sogno di mio padre vedermi in una grande squadra e in nazionale. E così io penso che con la mia carriera, con le mie vittorie in Brasile e in Europa, l’ho fatto felice. Sono sicuro che lui, che da due anni è non c’è più, è stato molto contento. Ha provato con me un sogno che lui personalmente non aveva potuto realizzare. Aveva giocato da giovane, anche con Dondinho, il padre di Pelé, di cui poi abbiamo conosciuto la famiglia. Mio padre è nato a Santos. Per questo, in famiglia, quando eravamo piccoli, eravamo tutti santistas. Io ho giocato al calcio per via dell’influenza di mio padre. Era un attaccante di sinistra, ambidestro. Il padre di Pelé era un nove, alto, forte. Raccontano che di testa era un fenomeno.

Quindi cos’è il calcio per te?

Il calcio era per me un sogno da realizzare. Vivere senza il calcio sarebbe come non avere ossigeno, non potrei respirare! Ho puntato tutto sul calcio. E poi avevo questo desiderio di vincere e fare questo regalo a mio padre. Per ringraziarlo di quando mi portava al campetto di Araraquara in bicicletta, e si fermava a vedermi giocare. Vivevamo in una casa piccolina, con mia madre, mia sorella e mio fratello maggiore. Mio padre mi ha accompagnato in questo sogno da quando avevo cinque, sei anni, fino all’esordio nel Guarani.

Mi racconti com’è andata con la storia del Campinas?

Il Campinas è un club di futebol che fondammo nel 1998 insieme io ed Edmar. Ci abbiamo anche giocato per un po’. Abbiamo provato a coltivare il sogno di formare giovani calciatori per poi mandarli in prima categoria. Ma purtroppo il progetto si è dovuto interrompere.

Le cose, però, non sono facili in Brasile. Un po’ la mancanza di appoggio delle istituzioni, un po’ anche per il comportamento scorretto dei giornalisti che non aiutano disinteressatamente a dare risalto a queste iniziative. Se io lavoro sui giovani, poi per farli conoscere serve l’aiuto della stampa locale. Sono venuti sei, sette volte, ma alla fine ero io che gli dovevo mandare le foto dei giocatori col cellulare…

Non so se ripeterei l’esperienza. Fare il presidente mi è costato soldi, fatica…

La situazione del calcio in Brasile?

Il calcio brasiliano è in crisi anche perché gli stipendi sono sproporzionati. Fred guadagna un milione di reais al mese! (250000 euro). Per il Brasile è tantissimo.

Si fa una divisione sbagliata dei diritti televisivi. Alle piccole e medie squadre restano gli spicci mentre le squadre principali incassano tantissimo.

Gli stadi costruiti per il mondiale sono stati una follia organizzata, hanno speso un sacco di soldi. La Fifa poteva intervenire e non l’ha fatto. Hanno fatto dodici stadi! Facciamone otto e il resto dei soldi li usiamo per costruire infrastrutture. A che serve il Mané Garrincha di Brasilia? Settantamila posti e Brasilia ha una squadra di calcio che gioca in serie C!

Della crisi politica attuale preferisco non parlare.

Progetti per il futuro?

Una cosa che sto cercando di fare è di esportare in Italia l’açaí. Ho degli amici tra Napoli e Milano, che spero siano interessati. È una cosa buonissima! (confermo)

Per lo più mi occupo del centro sportivo, il Careca Sport Center (sotto, qualche foro della struttura): curo l’amministrazione, organizzo serate, facciamo anche musica. Non faccio più il talent scout a tempo pieno. Tanta gente mi chiama per vedere un ragazzo. Io ci vado perché mi piace, ma non è che vivo della caccia al talento. Ho diversi amici che fanno questo lavoro, mi chiamano e passo la giornata con loro. La mia passione oggi è il golf. Come Diego, come Massimo Mauro. A golf sono mancino. A basket mancino. E poi mi piace il tennis. La piscina non mi piace molto, non nuoto granché bene. Sarà perché sono un brasiliano do interior, sono nato lontano dal mare. (ride)

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