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L’Economist bacchetta Napoli e l’Italia: «L’orgoglio per la pizza rivela il rifiuto della globalizzazione»

L’Economist bacchetta Napoli e l’Italia: «L’orgoglio per la pizza rivela il rifiuto della globalizzazione»

Titolo e sottotitolo sono tutto un programma, ovviamente in negativo: “For the love of Pizza – Italy’s pride in “genuine” food reveals much about its economic woes”. Una traduzione veloce e sommaria, giusto per contornare meglio un’idea già bella definita: “L’orgoglio dell’Italia per il suo piatto più genuino e celebrato rivela molto delle difficoltà economiche del Paese”.

Scrive l’Economist, ed è un attacco in piena regola al Belpaese. Partendo proprio da quello che invece dovrebbe essere il nostro vanto, la pizza, su cui invece sembriamo voler accartocciare la nostra economia, chiusa alla globalizzazione. Questo, in sintesi, il contenuto del pezzo estratto dalla versione cartacea del settimanale londinese. La pizza, inventata a Napoli come pasto per le classi meno abbienti, si è trasformata col tempo nel «piatto fast food più apprezzato al mondo». Eppure, secondo l’Economist, il giusto orgoglio italiano per questa eccellenza finsce per essere lo specchio della nostra «ansia da globalizzazione, da saccheggio da parte dell’estero». «Gli italiani – proseguiamo nella lettura – temono che la loro pizza, la migliore in assoluto, possa diventare preda di altri paesi». L’esempio di altri prodotti tipici italiani e del loro rapporto con le multinazionali – nel pezzo c’è l’esempio di Starbucks, che in qualche modo viene rigettato dall’Italia del caffè espresso ma sta continuando il suo tentativo di penetrazione nel Belpaese – è esplicativo della nostra difficoltà ad accettare la «bastardizzazione del resto del mondo».

Si parla anche di Napoli, e della pizza più lunga del mondo preparata qualche settimana fa sul Lungomare. Un’iniziativa a sostegno della candidatura della pizza come Patrimonio Immateriale dell’Umanità riconosciuto dall’Unesco la cui sentenza è prevista per il prossimo anno. L’Economist definisce come «dogmatismo culinario» pure i parametri stabiliti dall’Unione Europea nel 2010 con la sentenza che ha reso la pizza Specialità tradizionale garantita. Secondo il quotidiano inglese, infatti, «gli ispettori europei del cibo non hanno il tempo di prendere il righello e misurare lo spessore centrale di 0,4 centimetri o quello del cornicione fino a 2 centimetri». Ma non è finita qui: «I pizzaioli dicono di volere solo il riconoscimento della loro tradizione. Una paura che spesso viene manifestata è che dagli Stati Uniti qualcuno potrebbe cercare di ottenere il riconoscimento per la pizza inferiore. Allo stesso modo, Amburgo dovrebbe chiedere i diritti d’autore per l’hamburger? Oppure la Crimea dovrebbe fare lo stesso per la bistecca alla tartara? […] Cuochi e contadini, pizzaioli inclusi, hanno tutto il diritto di disegnare contorni precisi per i loro piatti e di impostare i propri standard, mentre lo Stato deve ovviamente garantire la sicurezza degli alimenti. I governi hanno un interesse, anche per garantire la qualità di alcune denominazioni premium, come ad esempio lo Champagne. Ma l’uso dissoluto di questo tipo di politiche tradisce un protezionismo innato da parte dell’Italia: invece di competere sui mercati globali, i produttori vogliono sancire il “patrimonio”, chiedono aiuto dell’Europa e massimizzando gli affitti possono estrarre dai prodotti “di qualità”».

 

Secondo l’Economist, questa non è una strategia vincente. L’ultimo paragrafo, dal titolo emblematico (“Slow food, slow economy”), fa capire come viene considerata oltreconfine la nostra economia: «Agli italiani piace pensare che la loro arte, la cultura e lo stile di vita solleverà il paese dal torpore economico. Ma la sacralizzazione del patrimonio è una macina. L’Italia non ha visto quasi nessuna crescita della produttività in più di un decennio, e in parte questo è dovuto al fatto che le sue aziende restano piccole: in media si contano sette dipendenti, circa le dimensioni di una pizzeria a conduzione familiare». C’è ancora qualche speranza, però. E se la pizza è il simbolo delle nostre difficoltà, la stessa pizza può in qualche modo insegnarci qualcosa: «I pomodori provengono dal Nuovo Mondo; la migliore mozzarella viene fatta dal latte della bufala, una bestia asiatica condotta in Italia dalle tribù barbare che conquistarono Roma; il basilico aromatico proviene dall’India. Migranti napoletani hanno esportato la pizza in tutto il mondo. Il genio dell’Italia sta nell’ inventiva della sua gente, nella capacità di adattamento. Non in una terra santa o in una tradizione canonizzata da parte dello Stato. Questo è sintomatico solo di paralisi e di fossilizzazione culturale».

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