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Viva la mamma di Ranieri e lo stereotipo italiano

Una confessione è doverosa: a me Ranieri che vince col Leicester piace. E mi piace anche la storia che lui stasera possa non festeggiare la vittoria del campionato (nel caso in cui il Tottenham non batta il Chelsea) perché in viaggio di ritorno dalla visita alla madre di 96 anni. Sì, è una storia inutilmente strappalacrime, che fa molto stereotipo italiano. E aggiungeteci tranquillamente il carico da novanta che preferite. Ne sono consapevole. Ma è una conclusione che sta benissimo addosso a una storia come quella tra il Leicester e Ranieri. Una storia che ha così successo anche, se non soprattutto, perché lancia un messaggio che non può non attrarre: nella vita non è mai finita.

Messaggio che vale per il Leicester e per Claudio Ranieri. Il tecnico romano – malignamente soprannominato er fettina perché il papà ha per decenni avuto un bancone di macelleria al mercato di Testaccio – fino a quest’anno era di fatto considerato (anche da chi scrive) un perdente di successo. Nemmeno tanto successo a dire la verità. Un perdente e basta. Anche se il suo è un curriculum prestigioso: Valencia, Chelsea (prima che arrivasse Abramovich e ingaggiasse Mourinho), Roma, Inter, Juventus, la Nazionale greca. Un allenatore che è diventato famoso per le occasioni perdute. Soprattutto con la Roma, quando perse uno scudetto in dirittura d’arrivo contro l’Inter di Mourinho il rivale che lo ha sempre sbeffeggiato. E un allenatore che abbiamo avuto anche noi a Napoli. Gestì il non agevole dopo-Maradona quando la città faceva non poca fatica a comprendere che l’età dell’oro era finita. Arrivammo quarti, fu messo in croce per l’acquisto di Blanc. L’anno dopo venne esonerato dopo i cinque gol incassati al San Paolo dal Milan. Qualche settimana prima il Napoli ne aveva realizzati cinque a Valencia, tutti realizzati da Fonseca.

Diciamo la verità, le squadre di Ranieri non hanno mai impressionato. È stato sempre accompagnato da una comprensibile dose di scetticismo. E poi la fama di magnifico perdente sembrava averlo ormai irrimediabilmente avvolto. Sennonché arriva il Leicester City club che è approdato in Premier soltanto lo scorso anno dopo undici anni tra serie B e serie C. La società lo chiama per disputare un campionato tranquillo, lontano dalla zona retrocessione (lo scorso anno il Leicester si è salvato grazie a un finale prodigioso con sette vittorie nelle ultime nove partite). Il classico finale di carriera mesto per un allenatore che non ha mai spiccato il volo. In una squadraccia, non povera perché il Leicester non è povero, però con una campagna acquisti (tra entrate e uscite) da 40 milioni di euro con il giappnese Okazaki pezzo pregiato del mercato (pagato 11 milioni di euro). E comunque un club senza tradizioni e con un organico da decimo posto.

Poi, come sappiamo, accade l’impensabile. Il Leicester gioca maluccio, come tutte le squadre di Ranieri. Corre decisamente di più rispetto alle squadre di Ranieri. Ha un impianto di gioco che ricorda i racconti del Padova di Nereo Rocco. Ha una coppia di centrali difensivi che potrebbero tranquillamente giocare “piloni” in serie A di rugby. Perché poi a Leicester, come spesso accade in Inghilterra, lo sport principale è il rugby. I Tigers hanno vinto sette campionati in dodici anni. E qui, in questa città, di 300mila abitanti, Ranieri ha messo su una squadra che gioca un calcio certamente primitivo eppure dannatamente redditizio. Palla lunga e pedalare e palla preferibilmente a Vardy, ex operaio che quest’anno la butterebbe dentro anche se giocasse bendato. Che poi due calciatori che sanno cosa farci col pallone Ranieri li ha pure: l’algerino Mahrez e il francese Kantè. 

L’anticalcio? Il dibattito è aperto. Non che l’Atletico Madrid giochi meglio. È un calcio ruspante quello del Leicester di Ranieri, certamente non basato sul controllo di palla. Altrettanto decisamente, però, un calcio che ha fatto propria la massima di Deng Xiao Ping sul socialismo: “Non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi i topi”. E il Leicester di Ranieri i topi li ha acchiappati eccome. La Premier League è nata nel 1992 e in ventitré edizioni hanno vinto soprattutto Manchester United (13), Chelsea (4) e Arsenal (3). Con due successi c’è il Manchester City degli sceicchi e l’ultimo miracolo risale al 1995 con il Blackburn. Ventuno anno dopo, il Leicester iscrive per la prima volta il suo nome dell’albo d’oro del campionato inglese. Solo una volta, nel 1928-29, era arrivato secondo. E la circostanza che il verdetto definitivo potrebbe arrivarre mentre Claudio Ranieri è in volo di ritorno dalla madre sembra essere perfettamente in linea con un personaggio che è sempre apparso – e forse lo è – un vaso di coccio tra i vasi di ferro e anche un allenatore meno bravo di altri. Un finale intriso del più consolidato degli stereotipi, che però stavolta non mi infastidisce. In fin dei conti, Ranieri ha vinto a modo suo. Anche se ha dovuto aspettare 65 anni per farlo.

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