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Umberto Eco e lo sport: «Non esiste più, esiste solo la chiacchiera sportiva»

Umberto Eco e lo sport: «Non esiste più, esiste solo la chiacchiera sportiva»

«Lo sport attuale è essenzialmente il discorso sulla stampa sportiva.[…] Se per una diabolica macchinazione […] le Olimpiadi non si svolgessero, ma fossero raccontate giorno per giorno e era per era con immagini fittizie, nulla cambierebbe nel sistema sportivo internazionale, né i discorritori di sport si sentirebbero defraudati. Quindi lo sport come pratica non esiste più, o esiste per ragioni economiche (poiché è più facile far correre un atleta che inventare un film con attori che fingano di correre): ed esiste soltanto la chiacchiera sulla chiacchiera dello sport. La chiacchiera sulla chiacchiera della stampa sportiva rappresenta un gioco con tutte le sue regole: basta ascoltare quelle trasmissioni radiofoniche della domenica mattina dove si finge (elevando lo sport alla potenza) che alcuni,cittadini radunati dal barbiere discorrano di sport. Oppure si può andare a sorprendere tali discorsi dove avvengono.»

Queste parole, di stringente attualità, furono scritte nel 1969 in un lungo saggio significativamente intitolato “La chiacchiera sportiva”e pubblicato ne Il costume di casa. Evidenze e misteri dell’ideologia [Bompiani, 1973].

La riflessione dell’illustre semiologo, scomparso venerdì notte, inizia con una provocazione: l’impossibilità da parte di un movimento studentesco o di contestazione d’invadere un campo sportivo alla domenica. E se qualcuno si azzardasse, ci sarebbero reazioni immediate da ampi strati della società, perché si andrebbe ad intaccare «una zona profonda della sensibilità collettiva che nessuno, o per convenzione o per calcolo demagogico, acconsentirebbe a toccare. Dunque c’è una struttura profonda del Sociale il cui Cemento Massimo, se disgregato, metterebbe in crisi ogni principio associativo possibile […] Lo Sport è l’Uomo, lo Sport è la Società.»

L’importanza del ruolo che manifestazioni di questo tipo svolgono nella società, consente però ad Eco una valutazione critica sullo sport considerato come: «uno spreco calcolato, l’aberrazione massima del discorso fàtico».

In quanto, originariamente, ogni gesto sportivo «è lo spreco proprio del gioco. E’ uno spreco – sia chiaro – profondamente sano.» Tuttavia sussiste un nucleo di equivoca sanità in cui «maturano le prime degenerazioni della gara: come l’allevamento di esseri umani votati alla gara […] l’atleta è un mostro, è l’uomo che Ride, è la geisha dal piede compresso e atrofizzato, votata alla strumentalizzazione totale.»

Attenzione però, specifica l’autore de Il nome della Rosa, l’atleta come mostro «nasce nel momento in cui lo sport viene elevato al quadrato: quando cioè lo sport, da gioco che era giocato in prima persona, diventa una sorta di discorso sul gioco, ovvero il gioco come spettacolo per altri, e quindi il gioco come giocato da altri e visto da me. Lo sport al quadrato è lo spettacolo sportivo […] Ma questo sport al quadrato […] genera uno sport al cubo, che è il discorso sullo sport in quanto visto. Questo discorso è in prima istanza quello della stampa sportiva, ma genera a sua volta il discorso sulla stampa sportiva, e dunque uno sporto elevato alla potenza n. Il discorso sulla stampa sportiva è il discorso su un discorso circa il vedere lo sport altrui come discorso.»

Ad una prima lettura potranno apparire valutazioni inutilmente complesse e prive di un significato concreto, in realtà sottendono una riflessione più ampia sul senso dello sport, ma soprattutto sul suo racconto – oggi si direbbe narrazione – e sulle “degenerazioni” a cui stiamo assistendo.

Gli odierni salotti televisivi sportivi, così come quelli politici, alimentano una vuota chiacchiera [Sul Napolista lo descrivemmo com «un brusio sterile con finalità di autocompiacimento. Un teatrone che trascina stancamente i suoi riti i suoi commedianti.»]. La chiacchiera sullo sport, parodia di quella politica, «dà l’illusione d’interessarsi di sport, la nozione del fare lo sport sport si confonde con quella del parlare lo sport: il chiacchierante si pensa sportivo e non si avvede più che non pratica lo sport». Per chiarire meglio il concetto, Eco cita Heidegger che in Essere e Tempo: «La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna preliminare appropriazione della cosa […] La chiacchiera, che è alla portata di tutti,non solo svincola dal compito di una autentica comprensione, ma forgia una comprensibilità indifferente per la quale nulla più esiste di incerto.»

Questo ampio discorso superficialmente potrebbe annoverare Umberto Eco tra i nemici dello sport, o più specificatamente del calcio, come scriverà in un articolo su El Pais il 15 giugno 1990: «Non ti telefonano solo per farti domande come “che pensa della morte di Pertini?”. Le chiamate ora sono sul Mondiale. Esiste il cronista disinformato che non sa nulla delle mie opinioni sul calcio e mi chiede cosa penso del campionato e che ha letto vari miei articoli, soprattutto sull’Espresso, attraverso i quali mi sono guadagnato una cattiva fama, e chiede l’opinione di un nemico dichiarato del calcio». Sulle colonne del quotidiano spagnolo – l’articolo comparirà anche ne Il secondo diario minimo [Bompiani, 1992] sotto il titolo “Come non parlare di calcio” – descriverà la sua idiosincrasia verso i tifosi di calcio: «Io non ho nulla contro il calcio. Non vado negli stadi per la stessa ragione per cui non andrei a dormire di notte nei sotterranei della Stazione Centrale di Milano (o a passeggiare per Central Park a New York), ma se mi capita mi guardo una bella partita con interesse e piacere alla televisione, perché riconosco e apprezzo tutti i meriti di questo nobile gioco. Io non odio il calcio. Io odio gli appassionati di calcio. […] Non amo il tifoso perché ha una strana caratteristica: non capisce perché tu non lo sei, e insiste nel parlare con te come se tu lo fossi».

In realtà però già nel giugno 1978 sulle colonne del settimanale L’Espresso, Umberto Eco scrisse un articolo – intitolato “Il Mundial e le sue pompe” – in cui esprimeva concetti non dissimili «rimarrebbe da chiedersi perché proprio io parli ora dei campionati, presto detto: la direzione dell’Espresso, in un impeto di vertigine metafisica, ha insistito perché dell’evento si parlasse da una prospettiva di assoluta estraneità. E così si è rivolta a me. Mai scelta fu migliore e più avveduta». Forse una provocazione quella di Eco, il quale pur non dichiarandosi contrario alla passione calcistica, e ritenendola anzi provvidenziale, se ne dichiara favorevole così come era «favorevole alle competizioni su motociclette sull’orlo di abissi, al paracadutismo mistico, alla traversata degli oceani su canotti di gomma, alla roulette russa e all’uso della droga».

Pur tratteggiando uno scenario quasi apocalittico – «gitani che discendono sanguinanti dal pullman, feriti dai vetri fracassati a colpi di testa»; «giovinotti festanti che ebbri […] si schiantano contro un Tir»; «atleti rovinati psichicamente da lancinanti astinenze sessuali»; «famiglie distrutte economicamente dal cedimento a insani bagarinaggi» – precisa che la sua è un avversione agli spettacoli sportivi e non allo sport, inteso come svolgimento di esercizi fisici senza fini di lucro, o al gioco del calcio che «non ha nulla a che vedere con lo sport così inteso. Non per i giocatori, che sono professionisti sottoposti a tensioni non dissimili da quelle di un operaio alla catena di montaggio, tranne trascurabili differenze salariali) non per i guardanti – e cioè la maggioranza – che appunto di comportano come schiere di sessuomani che vadano regolarmene a vedere (non una volta nella vita ad Amsterdam, ma tutte le domeniche, e invece di) coppie che fanno all’amore o che fan finta di farlo.»

Insomma appare chiaro, nonostante i numerosi tentativi, che al filosofo nato ad Alessandria non gradisse particolarmente il calcio ed i suoi appassionati, ciò nonostante l’Alessandria Calcio ha voluto rendere omaggio all’illustre alessandrino. Requiem

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