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La domenica in cui i Quartieri Spagnoli si fermarono per il murales di Maradona

La domenica in cui i Quartieri Spagnoli si fermarono per il murales di Maradona

Napoli, restauro murales Maradona ai Quartieri Spagnoli: secondo giorno.

Domenica mattina, alle 8.30, la gru della Citelum è già ferma su via Toledo. A guidarla, oggi, è Donato: nato ai Quartieri Spagnoli, ci racconta di essere sempre andato allo stadio con il padre, anche quando il Napoli era in serie B e in serie C. È tifosissimo, molto timido, ci dice che è contento di essere lui, oggi, a guidare l’elevatore.

Ci avviamo su via Emanuele De Deo e sotto al murales troviamo un ragazzo fermo sul motorino. È incantato a guardare in alto, verso il volto di Diego. Ci racconta che ha appena smontato dal lavoro notturno in un laboratorio di pasticceria ai gradoni di Chiaia. Gli chiediamo cosa pensa del lavoro che sta facendo Salvatore: «Il viso è diverso da quello originale. Assomiglia a quello di Dragon Ball. Però è bellissimo uguale – aggiunge – È bellissimo per il quartiere che sia stato rifatto. Certo, che grande cosa che fece Mario Filardi…».

Alle 9,15 Salvatore Iodice compare sulla salita. Ha il viso stanco, di chi ha lavorato tutto il giorno, ieri, e ancora è concentrato sulla fine del lavoro che deve avvenire entro oggi pomeriggio alle 17 perché la gru è disponibile fino a quell’ora. Porta con sé un secchio azzurro con dentro pennelli e spatole. Si mette subito all’opera per recuperare le chiavi delle macchine parcheggiate per farle spostare e far entrare la gru nello slargo. Torna dopo poco con un cornetto in mano, giusto cinque minuti per mangiarlo e sale nel cestello. Alle 9,40 è all’altezza della finestra abusiva. Come già accaduto ieri, dall’interno della casa del signor Ciro, l’attuale proprietario dell’appartamento (che lo ha acquistato già con l’abuso dentro), gli passano le pitture per completare il lavoro.

La signora Mena passa per andare a fare la spesa: «Buon lavoro, ragazzi!», saluta chi per un motivo o per un altro è in piazza di domenica mattina a quest’ora. È contenta perché ieri è stata ripresa da tutti, compresi noi, quando ci ha portato gli storici cimeli del primo scudetto. «Sono allegra – ci racconta – per questo mi vogliono tutti bene. Se sapeste cosa ho passato mi chiedereste come faccio a ridere, ancora. Ho perso mio marito, mio nipote, ma continuo a sorridere, perché se sei positivo la vita va meglio. Che piango a fare? Mica passa. E allora è meglio ridere». Ci racconta che va spesso a pregare dalle monache francesi, alla Fondazione Foqus. Ci andrà anche stasera. Tiene corsi di ricamo, è benvoluta da tutti: «Le suore mi chiamano “la bambina”, perché sono sempre allegra. Sto in attività tutto il giorno perché i miei figli sono grandi, se sto a casa il cervello inizia a lavorare e mi prende la malinconia. Mica si possono prendere sempre gli ansiolitici! E allora mi faccio gli ansiolitici naturali, sorridendo sempre». Ci abbraccia e ci bacia perché stiamo lì a raccontare la sua storia e quella della gente del quartiere.

Salvatore, intanto, inizia a ricalcare il braccio destro di Diego. «Ma chist’ nunn’è Maradona – urla un ragazzo che passa in motorino – Assomiglia più a Holly e Benji», ride. Salvatore lo invita a salire e a dipingere lui il viso di Diego. Lo farà con tante persone del quartiere che gli muovono appunti sulla ricostruzione che ha fatto della faccia del Pibe: «Mica so disegnare, io!», risponde il ragazzo.

Alle 10,35 il braccio destro di Diego è completo e Salvatore inizia a ricalcare e dipingere quello sinistro. Mentre le pennellate si susseguono, la gente comincia ad affluire in strada. Si fermano a fare foto e a commentare il prosieguo dei lavori. Pinuccio ‘O president’ e altri venuti con lui chiedono che venga apposta sul murales la firma di Mario Filardi. In tanti la vorrebbero in corsivo, sul pantaloncino, sopra al numero 10, che ancora deve riemergere da trent’anni di abbandono. Salvatore, dall’alto della gru, dice loro che non può garantire che venga bene, lì. Alla fine si decide di mettere le iniziali di Mario nell’incavo tra il braccio destro e la maglietta: “F.M. Bostik”, è questa la scritta che campeggerà alla fine.

All’improvviso inizia una mobilitazione generale per tirare via dal muro le putrelle conficcate nella parte inferiore del murales, per permettere a Salvatore di completare per bene il pantaloncino con il mitico numero 10. Qualcuno va a prendere uno scaletto, qualcun altro porta una prolunga, compare un flex. Gli abitanti dei Quartieri si liberano delle giacche che li impacciano nei movimenti e restano in maglietta. Un gruppetto di quattro persone si dà da fare per ripulire il muro. Le scintille del flex sul ferro illuminano la mattinata velata dalle nuvole. Ci vogliono pochi minuti per estirpare via le tracce dell’incuria. Maradona è libero e Salvatore può procedere a completare il restauro.

Sotto al murales, intanto, la gente continua ad affluire. C’è Ciro De Blasio che porta per mano il nipotino biondo appassionato di Ghoulam: «Non mi piace più Marechiaro, adesso mi piace Ghoulam», ci racconta il piccolo di cinque anni che scopriamo essere un appassionato di Play Station. Ciro ci racconta dei festeggiamenti per lo scudetto: «Portammo qui dodici bare, su ognuna c’era qualcosa che ricordava le squadre avversarie. Sul Milan ci accanimmo proprio perché in quegli anni era la nostra avversaria peggiore, ci rubò pure uno scudetto. Ognuno si piangeva un morto». Gli fa eco una signora di ottantuno anni che racconta che all’epoca era vestita tutta di nero, e che con le sue amiche si mise a piangere su una bara per partecipare alla festa. «Facemmo una torta raffigurante lo scudetto, che poteva essere di 5, 6 metri. Ci mangiarono tutti. Fu una festa bellissima. Se il Napoli vincesse di nuovo lo scudetto, potremmo rifarlo di nuovo. Erano tempi bellissimi, ci divertimmo un sacco», continua Ciro.

Passa un uomo in moto, ci chiede se saranno coperti anche i fori di proiettile che sono sul petto di Maradona. Se si guarda bene, sulla maglietta azzurra di Diego c’è una crivellata di colpi. Lui – che non ci dice il suo nome, ma la sua età sì, ha cinquant’anni – ci racconta che un tempo le Teste Matte venivano qui a provare le armi di grosso calibro e che il Murales diventò un bersaglio. Una versione che poi sarà smentita dal proprietario della casa. «Erano altri tempi, in cui c’erano veramente i grossi clan, a comandare, ma in cui c’era rispetto – racconta – Non avresti mai potuto trovare la spazzatura fuori dalle case, perché ti venivano a bussare per dirti di tenerla dentro e di andarla a buttare di notte da qualche altra parte perché la strada, qui, doveva essere pulita. Non era come adesso che i diciottenni senza storia si pensano di comandare loro. C’erano i capi e si rispettavano tra loro e anche la gente stava più tranquilla, veniva protetta. Adesso è cambiato tutto».

Sono le 12.30 e inizia ad arrivare la stampa. La prima è Sky. Con la troupe della Rai arriva anche un figurante: è vestito tutto di nero, con i cornetti rossi attaccati ovunque e la bombetta in testa. Si mette a favore di telecamere, con il murales alle spalle, e recita il monologo de Il mistero di Bellavista, parla della finta di Maradona che scioglie il sangue nelle vene. Il lato pittoresco di Napoli cerca di mettere le mani sui Quartieri, che ci sembra si prestino a malincuore. Se ne va con le telecamere: esisterà mediaticamente ma in realtà non c’è mai stato.  

Intorno alle 14 arriva anche il sindaco De Magistris. È di ritorno dall’inaugurazione dell’oratorio della Chiesa di San Matteo in vico Lungo San Matteo. Chiede come mai stiano restaurando il murales, lo guarda affascinato e ascolta le richieste della gente del quartiere. Gli chiedono la raccolta differenziata e lui promette che arriverà anche qui sopra, che è una questione di soldi, che ci vuole un altro poco di tempo. Gli chiedono di ripulire la piazza, lui si guarda intorno e dice che si può fare.

Con lui anche l’assessore Clemente, alla quale due persone anziane, un uomo e una donna, chiedono di intervenire sulla spazzatura abbandonata per strada. La signora Annamaria Esposito, prozia di Mario Filardi, abita in vico Concordia: «Sono stata operata anche di tumore, butto la spazzatura nei bidoni dopo le 22 perché così si deve fare. Invece la gente del quartiere la butta a tutte le ore, e quando gli dico di smettere mi pigliano pure a parolacce, mi chiamano “la guardia della munnezza”. Poi vengono a incendiare i cassonetti e io devo respirare quell’aria fetente». Anche Antonio Lianza, un pensionato ex dipendente Alenia Fusaro, racconta un’analoga situazione in vico Colonne a Cariati. Racconta che incendiano i cassonetti da due giorni e che l’ultima volta la gente è dovuta uscire dalle case con i bimbi in braccio per non fargli respirare la puzza. L’assessore Clemente promette che impegnerà gli assessori competenti sulla questione, il sindaco ha già risposto che è anche una questione di civiltà degli abitanti, non solo una questione istituzionale. Al sindaco qualcuno chiede anche di andare più spesso in carcere a trovare i detenuti: «Già l’ho fatto tre volte – risponde De Magistris – ma posso solo segnalare, denunciare, ma non è mia la competenza sulle carceri e sulle condizioni di vita che ci sono negli istituti carcerari».

Il sindaco va via, e il malumore tra la gente dei Quartieri inizia a farsi sentire. Nei capannelli di gente ancora ferma in attesa del pranzo domenicale in tanti dicono che il sindaco, in cinque anni, non è mai arrivato fin quassù, che adesso è venuto perché ci sono le elezioni: «Tra tanti presenti almeno un voto l’avrà preso», commenta Guido.

Salvatore intanto va avanti imperterrito. È deciso a non fermarsi neppure per pranzare, stavolta, vuole finire a tutti i costi. E alle 14,40 l’operazione murales è conclusa. Salvatore Iodice ha completato l’opera di restauro del disegno di Mario Filardi, scolorito nel corso di trent’anni. Qualcuno gli suggerisce di mettere anche la sua firma, insieme alle iniziali di Mario: «No, io metto in risalto chi fece questa cosa grandiosa. Poi, magari, tra trent’anni, qualcuno rifarà il mio e metterà anche la mia firma».

La reazione dei Quartieri è spontanea e commovente. Dai balconi si affacciano in tanti, applaudono, rendono merito al lavoro di questo ragazzo che da ieri è concentrato solo sull’obiettivo del restauro, un lavoro documentato dal Napolista per tutta la sua durata, minuto per minuto. Sono soprattutto donne quelle ferme in piazza alla fine dei lavori, e donne quelle affacciate ai balconi. Sono loro a intonare, all’improvviso, il coro maradoniano per eccellenza: “Oh mamma mamma mamma, oh mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona, uè, mammà, innamorato so’”.

Restiamo a chiacchierare con Guido e con Salvatore Visone il parrucchiere che pure ha contribuito alla colletta di quartiere per il restauro. Chiediamo loro cosa pensano del viso di Maradona, com’è venuto, che in tanti si lamentano non sia uguale all’originale. «È bello a critica’ – risponde Guido – È facile dire quello che non va, molto più difficile fare davvero qualcosa per il quartiere, come sta facendo Salvatore». Salvatore Visone difende il lavoro di due giorni: «L’artista è quello che ha il suo modo di vedere le cose. Il viso di Maradona non c’era più, al suo posto ci avevano messo una finestra. Salvatore lo ha fatto come lo ha interpretato. Se lui lo vede così, così doveva essere fatto. Ha fatto un grande lavoro».

Salvatore finalmente scende dalla gru. Accanto a lui c’è Ciro, il proprietario dell’appartamento il cui affaccio, da oggi, ospita di nuovo il viso di Maradona. È contento di aver contribuito a riportare Diego al suo splendore. Gli facciamo notare quanto abbiamo già scritto ieri, e cioè che lo scudetto Salvatore lo ha finito alle 16,48. «Veramente? – ci chiede – E questo è un segno! Mi vengono i brividi solo a pensarci». Gli chiediamo se è soddisfatto del lavoro svolto da Salvatore e se aprirà un po’ meno la finestra, adesso, se farà come già ci aveva detto ieri mattina: «Sai quando la vorrei riaprire un’altra volta? – ci chiede – A metà maggio. Sarebbe bellissimo».

A Salvatore facciamo la domanda che hanno fatto a noi per tutto il giorno, se quei fori di proiettile saranno coperti. Anche lui, come altri nel corso della giornata, ci dice che sono pezzi di storia e che devono restare lì a documentare. Chiediamo a Ciro se è vero che venivano qui ad esercitarsi con le armi, se davvero il murales Maradona era diventato un poligono di tiro. «Ma quante fesserie – commenta Ciro – Quei fori furono un regalo che mi fecero a Capodanno, sei o sette anni fa, quando la notte del 31 la gente andava in giro a sparare con le pistole per festeggiare. Mi spararono verso le finestre. Non ero a casa, stavo da mia madre. Tornai e trovai nel bagno i vetri rotti, tutto spaccato, anche le mattonelle. Capìì cosa era successo perché trovai le pallottole ficcate nelle tapparelle. Se guardi bene la finestra accanto a Maradona vedi ancora un foro. Per fortuna non c’ero. Per fortuna risparmiarono le porte, non ci arrivarono i proiettili».

Salutiamo tutti, ci abbracciamo come fossimo vecchi amici. Siamo qui da due giorni, ormai siamo facce note a tutti. Abbiamo seguito Salvatore in ogni suo movimento, per tutta la durata del suo restauro. Ce ne dà atto anche lui: «Non vi siete persi neppure un momento», ci dice e noi gli rispondiamo che è stato il nostro modo di contribuire a fare qualcosa di bello per i Quartieri, il nostro dovere di cronisti.

Salvatore va via a bordo del motorino di Ciro, diretto alla Miniera (il suo laboratorio, ndr) per riporre pennelli e pitture. Poco dopo, scriverà su Facebook: “Portare a termine una cosa del genere richiede tanta passione ma anche forza mentale, senza fare i nomi di nessuno, posso solo ribadire il concetto di insieme, e se viene meno questo non si può creare nulla di buono, il murales è stato per me una grande sfida e l’ho vinta ma non mi fermo qui, vado avanti spendendomi per questa città che mi sta prendendo l’ anima. Io sono Napoli. Riciclarte miniera di Salvatore Iodice vi ringrazia ancora e per il futuro. Buona domenica”. La foto della sua opera viene ripresa, sempre su Facebook, da Maradona.  

Buona domenica anche da noi, che facciamo ormai parte di quell’”insieme”.

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