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Gambardella presenta a Napoli l’architettura dell’accoglienza: «Ce l’abbiamo nel sangue anche se qui conta più “a chi appartieni” rispetto a “cosa fai”»

Gambardella presenta a Napoli l’architettura dell’accoglienza: «Ce l’abbiamo nel sangue anche se qui conta più “a chi appartieni” rispetto a “cosa fai”»

Napoli è stata l’inconsapevole sede di Plastic Village – Il limite imperfetto tra architettura e design, un progetto innovativo curato dall’architetto Cherubino Gambardella in collaborazione con la Fondazione Plart. Il workshop che si è concluso pochi giorni fa, cui farà seguito una mostra che verrà innaugurata il 3 dicembre, nasce dall’esigenza di creare dei Plastic Village che non abbiano un’utilità puramente tecnica ma che servano a dare «all’accoglienza un carattere gradevole sin dalla prima fase, che è quella più difficile, dell’ospitalità immediata, che va risolta in modo sorridente e architettonicamente plausibile, nell’attesa o di una implementazione definitiva della struttura di prima accoglienza o, ancor meglio, di una più solida politica di integrazione stabile». Una sorta di naturale continuazione di quella visione utopica della creazione di un nuovo tessuto urbano che traspariva già nella mostra dell’architetto intitolata Supernapoli e presentata nel 2014 alla Triennale di Milano.

foto di Luciano Romani 

«Abbiamo affrontato un tema forte, ma diventato drammaticamente attuale, quello di lavorare con l’emarginazione – ci spiega l’architetto – non è facile trovare risposte in una situazione in cui strati d’animo che hanno a che fare con la precarietà e il senso del pericolo sono diventati molto esacerbati. Abbiamo a che fare tutti i giorni con la precarietà e la paura, perché fanno parte della vita, ma alcuni accadimenti possono rendere tali stati d’animo… Anche se il workshop era stato pensato in un momento più tranquillo, legato anche all’esperienza che ho fatto all’Expo con la creazione del padiglione dei dodici paesi del Mediterraneo, un tema che studio da 29 anni per trattare il tema degli immigrati dando all’accoglienza un carattere gradevole e architettonicamente plausibile come palinsesto di integrazione di culture senza un dominio, che esso sia religioso, culturale, economico».

Perché Napoli?
«Perché i napoletani sono una popolazione meticcia per definizione, lo siamo perché abbiamo sempre accolti e siamo stati accolti. Perché nella nostra storia siamo stati greci, romani, bizantini, svevi, aragonesi, spagnoli, francesi e persino sabaudi, siamo stati tutto e questo essere stati tutto ci consente di avere un punto di vista meno denso di preconcetti, più legato alla tolleranza. A noi napoletani non costa molto essere accoglienti. A Napoli non c’è quasi mai nulla di respingente, di paternalistico sì, non a caso abbiamo consentito che tutta la parte orientale della città diventasse una Chinatown ma non come in via Sarpi a Milano dove ci sono notevoli critiche e discussioni». 


Quali difficoltà avete incontrato nello svolgimento del progetto?
«La difficoltà che abbiamo voluto affrontare col workshop è quello che essere disposti ad accogliere non significa accettare di barattare la democrazia. Siamo stati la prima città a essere liberata dal fascismo con un contributo di sangue non indifferente e non siamo qui per sostituire le nostre tradizioni, perché togliere la libertà a un napoletano è come togliergli l’aria anche se poi a volte la usiamo male. Abbiamo voluto estendere il concetto di libertà e accoglienza a situazioni che a Napoli sono consuete. In altre città italiane e europee, il barbone, il mendicante o la persona in difficoltà viene visto come soggetto da accogliere e rieducare, noi invece non vogliamo rieducare nessuno, li adottiamo e basta. Io stesso ne ho tre o quattro adottati, uno però purtroppo è morto nella galleria Umberto I due anni fa per il freddo, se avesse avuto almeno un riparo dove passare la notte forse sarebbe ancora vivo. 
Il nostro obiettivo è stato quello di studiare la realizzazione di alloggi che non fossero ghetti o campi nelle periferie ma installazioni non spiacevoli. Non vogliamo relegare gli emarginati, vogliamo creare per loro un habitat in cui si possano integrare con il resto della città. Pensate che se si esce dal tunnel della Vittoria, sotto i portici dove c’è la sede del Mattino, storico quotidiano napoletano, si trova una grande comunità di barboni; visto che sono quindici anni che questa cosa esiste, sarebbe interessante e ragionevole che avessero dei villaggi tessili in dialogo con il resto della città. Intendiamoci, non voglio la favelizzazione dei centri urbani ma un’aggiunta anche dissonante che possa essere una scossa per certe ritualità della nostra città che è racchiusa nella dissonanza tra la rapacità delle periferie e lo snobismo della borghesia». 

Cosa avete realizzato?
«Abbiamo disegnato in quattro metropoli, Beirut, Napoli, Washington e Mosca, degli agglomerati per senzatetto, addirittura sulla piazza Rossa di fronte al Mausoleo di Lenin abbiamo eretto una torre multietnica, a Washington abbiamo lavorato nell’area del Lincon Memorial, a Napoli la zona designata per lo sviluppo del progetto è stato il porto che ci è sembrato il posto più bello e più segnato della guerra. Abbiamo immaginato di utilizzare carcasse di navi da guerra con del polistirolo per creare alloggi, un’accoglienza non estraniante dove anche i napoletani potessero passare del tempo. Un’integrazione che serva a rivalutare anche il tessuto della città, rivalutare un posto in fondo non è affatto difficile. Se prendiamo, ad esempio, la zona dei baretti a Chiaia, oggi centro della mondanità, fino a quindici anni fa era una zona morta, eppure è bastato portare una funzione come il tempo libero e si è rivalutata. Integrare e ravvivare i luoghi è un esercizio semplice, abbiamo bisogno di vita, non di lusso, e di sconfiggere una paura, e per fare questo tutti possono dare un contributo». 


Come è stato accolto il suo progetto?
«Napoli è una città strana, perché Napoli è una città densa di paure e preconcetti, tanto è vero che la stampa nazionale ha mostrato più interesse di quella locale. È singolare che il cosiddetto potere decisionale, culturale e politico sia nelle mani di un’oligarchia di impronta borghese: la stessa borghesia, che nel dopoguerra ha contribuito alla formazione dello stato democratico, oggi è una borghesia svenuta, interessata solo a come passare il tempo tra Roccaraso, le lezioni di sci dei figli e un prosecco. Certo Napoli non è diversa da New York o Londra, (il Madre ha rappresentato un’eccezione per me, quando ha deciso di accogliere nella collezione permanente il lavoro svolto nel 2014), ma qui ci troviamo nella completa assenza di capacità di metterci in gioco. La stessa città che negli anni ’70 con Lucio Amelio era una capitale, oggi stenta a superare una dimensione frivola e mondana, si è persa la curiosità e la voglia di cultura. Sono dieci anni che lavoro e in parte vivo a Milano e pur non adorandola, perché manzonianamente poco accogliente, non posso che constatare che dal dopoguerra ha dato tante opportunità a tutti noi meridionali. Trovo straordinario che mentre da noi si radicalizza il problema del “a chi appartieni”, a Milano conta il “che cosa fai”. A Napoli, senza voler fare polemica sterile, conta a quale parrocchia appartieni e non chi sei davvero, che contributo puoi portare e qual è la tua storia.
La cultura ci permette di risolvere i problemi, più sai più sei in grado di risolvere i problemi, ma non in senso di quanti libri hai letto (bella in questo senso la canzone di De Gregori “La Storia”), ma quanto la tua cultura sia fondata sulla tua capacità di elaborare quello che vedi e stabilire delle distanze tra te e quello che vedi. 
Personalmente ho sempre scelto la libertà, perché sentirsi liberi non ha prezzo, ma è certo che il viaggio di chi sceglie la strada della libertà e della cultura è più lungo e meno diretto, ma la strada più lunga ha il vantaggio di farti vedere più cose». E in quest’ottica un workshop è una ricerca, non certo un punto di arrivo, ma un modo per provare a creare soluzioni insieme o almeno accendere la curiosità di provarci.
Francesca Leva

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