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Napoli non è una fede ma richiede coraggio e abnegazione

Napoli non è una fede ma richiede coraggio e abnegazione

Col Napoli non bisogna esagerare: è una squadra di calcio. Se fosse una fede, sarebbe un pericolo mortale: potrebbe rivelarsi un idolo, muto e sordo come gli idoli, un dio che non ti può salvare e che anzi ti procura più dolori che gioie. Da sempre, il Napoli è così: una fonte inesauribile di affanni,  una tortura cui il tifoso è costretto a ritornare, sperando di vedersela cambiata in giardino di delizie. Il Napoli non può essere una fede, perché la fede salva, e il Napoli, al massimo, si salva. La serie B è l’inferno, o meglio, il purgatorio: dall’inferno, dicono, non si può più uscire. Ma il tifoso, per il Napoli, scende pure all’inferno; non teme di perdersi e dannarsi, anche se poi fa gli scongiuri, o addirittura prega, perché la squadra risorga, non lo faccia più soffrire, si trasformi in una Juve senza Agnelli, in grado di battere chiunque. Sì, ma solo se nel petto a pulsare è un cuore azzurro, con le pendici verdi del Vesuvio, l’arcobaleno di colori a Mergellina, le cascate di fiori che si lanciano, col sole, dai terrazzi di Posillipo, o l’erba che cresce tra le pietre storte del Rione Sanità. Napoli non è una fede: ma richiede coraggio e abnegazione, un fegato impassibile di fronte alle sconfitte, e lacrime capaci di versarsi senza essere notate da nessuno. Il Napoli non salva, ma trascina in un ballo che sai quando comincia e non sai quando finisce. E mentre stai li, tutto sudato, a chiederti fin quando le gambe reggeranno, ti guarda di traverso, con gli occhi in cui intravedi la voglia di salvarti, il sogno che dal prato si alzi un urlo che arrivi fino al cielo, perché oggi, questo gol, lo apprezzi pure Dio.
Fabrizio Centofanti

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