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«In Italia i tifosi sono considerati problemi, manca la cultura dell’accoglienza»

Carlo Balestri è il fondatore del Progetto Ultras che si proponeva di valorizzare la cultura del tifo e mediare con le istituzioni per abbassare le tensioni. «Il progetto nasce nel 1995, ma è di fatto finito nel 2008 perché, paradossalmente, le istituzioni hanno preferito risposte veloci e senza mediazioni, come ad esempio la tessera del tifoso. Non puoi creare un programma per cambiare le cose quando chi dovrebbe cambiarle non ti ascolta anche perché la tua credibilità dal basso viene a cadere». 

Oggi Carlo è responsabile nazionale dell’integrazione, intercultura e cooperazione per la Uisp (Unione italiana sport per tutti), nonché  responsabile dei Mondiali Antirazzisti che anche quest’anno si terranno a Bosco Albergati (provincia di Modena) dal 1° al 5 luglio.

Lo abbiamo sentito anche in merito agli scontri avvenuti la scorsa settimana a Roma, con gli ultras del Feyenoord che hanno distrutto la barcaccia in piazza di Spagna.
«In Olanda non sono sicuramente dei tifosi modello, anzi sono gli antesignani di un certo tipo di tifo hooligan. Storicamente sono stati gruppo con una componente hoolingan molto forte dagli anni ’80 in poi, come del resto in tutto il nord Europa. Negli anni ’90 in molti Paesi questa componente è andata scemando, nel caso di Rotterdam invece no. Un ruolo fondamentale lo hanno svolto i Gabber (che in olandese-yiddish significa “amico”) cioè esponenti della Techno Hardcore, che a Rotterdam – dove sono nati – hanno creato uno stile skin head ed erano molto legati proprio agli hooligan del Feyenoord. C’era una commistione di musica, tifo e anche droga. Il gruppo Supporter Club Rotterdam è abbastanza famoso per episodi violenti e anche di antisemitismo nei confronti dell’Ajax ad esempio.

Al di là di questo, però, sono molto critico rispetto al modo di intervenire in Italia nei confronti del tifo organizzato. Dalla mia esperienza con i gruppi ultra ho imparato che ci si mette in relazione con gli altri in maniera differente a seconda di come veniamo trattati. È chiaro che se il tifoso in trasferta viene trattato come un potenziale problema, lui di conseguenza si sente indesiderato e alimenta il conflitto. Non credo che sia una vittoria impedire le trasferte ai tifosi o chiudere gli stadi, ma una sconfitta. Mi rendo conto che il mio pensiero possa apparire paradossale ma è figlio della mia lunga esperienza proprio con i gruppi ultras».

Tornando a quanto accaduto a Roma, è storico e assodato che gli ultras non hanno un buon rapporto con la polizia e dunque tu che fai? Schieri tutti i poliziotti che hai a disposizione?
Così tendi ad esasperare gli animi. Gli incidenti si possano prevenire accogliendo i tifosi, invece che accerchiandoli. Sono arrivati a Roma cinquemila sostenitori del Feyenoord, secondo me neanche uno di loro con l’idea di sfasciare la città, sono venuti con idea di fare bisboccia, volevano fare turismo sportivo in maniera nordica (andiamo in giro e beviamo tanto). Erano cinquemila e avevano tempo per godersi la città e andare in giro e si sono dati appuntamento in uno dei posti più famosi di Roma, Piazza di Spagna, e da qui sono nati gli incidenti. Ma perché non mettere a sistema una qualche accoglienza invece di lasciarli al caso? Perché non dirottare i tifosi in un posto che tu, autorità preposta, hai deciso e dove hai costruito un punto di accoglienza, magari un evento, con tanto di palco, musica e magari un bagno ogni 250 persone (mi sembra che anche questo aiuti ad evitare che la facciano per le strade).
Se invece di considerare i tifosi come un problema da gestire, si riuscisse a vederli in modo positivo, come una possibilità anche di guadagno per la città, sarebbe meglio e si eviterebbero gli incidenti perché gli animi sarebbero più distesi. Al nord si chiamano fan zone, basta allestire un palco, stand con cibo e birra, così eviti anche che possano procurasela con le bottiglie di vetro. Non dico che questa soluzione elimini completamente qualsiasi possibilità di scontri, ma sicuramente ne abbassa le possibilità del 70%. È il discorso che abbiamo cercato di portare avanti per tanti anni col nostro progetto, se capisci le intenzioni dei tifosi che vengono in una città è facile accoglierli nel modo giusto e per far questo basta mettersi in comunicazione con le varie federazioni e chiedere informazioni sui tifosi. In Italia questo non accade, pensano solo ad informarsi sul numero dei possibili tifosi pericolosi. Durante la finale di Champions che si tenne proprio a Roma il 27 maggio 2009, venne messo in pratica quello che stavo spiegando, fu creata una  fan zone dietro il Colosseo, a Colle Oppio e tutto funzionò benissimo. La spesa è stata sicuramente minore rispetto a quella che hanno avuto questa volta, per le forze dell’ordine e per i danni subiti.

Perché queste diverse contromisure non si adottano? 
Noi non abbiamo la cultura del turismo sportivo, come non abbiamo una certa cultura sportiva in genere. Invece di cercare una soluzione ai problemi e un dialogo positivo si reagisce sempre allo stesso modo, reprimendo e poi quando avvengono gli incidenti si scaricano le responsabilità. Così hanno trasformato gli stadi in un luogo inospitale, con tutte quelle regole, recinti,  fossati, tre tornelli, perquisizioni e obbligo della tessera del tifoso che non hanno avuto altro esito che abbassare enormemente il numero di abbonati negli stadi italiani.

In che cosa consiste invece la vostra opera, come portate avanti il vostro progetto?  
Proprio questa cultura dello sport condiviso cerchiamo di portare avanti con i Mondiali Antirazzisti. Ad esempio nelle nostre partite non ci sono arbitri e questo non significa che ciascuno può fare quel che vuole, ma che c’è una forma di autoregolazione dei giocatori. Questo aiuta la correttezza. Ai mondiali partecipano numerose comunità di ultras e non abbiamo mai avuto problemi eclatanti, anche perché chi compie un gesto fuori luogo viene naturalmente allontanato dagli altri.

A Rotterdam ci sarà la ritorsione dei romanisti? 
Non credo che succeda nulla, anche se alcuni tifosi romanisti andranno lì per una vendetta. Lì le forze dell’ordine hanno un modo che definirei più robusto di intervenire, 20 poliziotti fermano 20 hooligan, mentre qui ce ne vogliono 100. Hanno strategie diverse di controllo della folla, più furbe rispetto alle nostre, e sanno identificare meglio gli elementi pericolosi, isolarli e renderli innocui in poco tempo.
Francesca Leva

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