Lo zio di Ciro Esposito: «Il calcio è una delle poche forme di identità sociale rimaste»

Il convegno sul tifo, che si è svolto nell’Aula Magna di Sociologia della Federico II, organizzato dal ministero dell’Interno e l’Università, è proseguito con una serie di interventi di professori e ricercatori universitari che hanno scandagliato il pianeta calcio suddividendolo in tanti argomenti. L’intervento più profondo, per ovvie ragioni, è stato quello di Enzo Esposito, […]

Il convegno sul tifo, che si è svolto nell’Aula Magna di Sociologia della Federico II, organizzato dal ministero dell’Interno e l’Università, è proseguito con una serie di interventi di professori e ricercatori universitari che hanno scandagliato il pianeta calcio suddividendolo in tanti argomenti.

L’intervento più profondo, per ovvie ragioni, è stato quello di Enzo Esposito, invitato nella doppia veste di ricercatore sociale e, purtroppo, zio di Ciro Esposito un’altra vittima del calcio. Esposito, una vita in politica, nel sindacato, racconta come dal 3 maggio sia stato catapultato in questo mondo, quello del calcio e degli ultras in particolare. «Ho voluto applicare al calcio il metodo che avevo sempre utilizzato per le politiche industriali, avevo voglia di conoscere». Esposito racconta il suo viaggio nella galassia ultras. «Ho incontrato tanti ultras, di Napoli ma non solo. Mi sono interessato al fenomeno, volevo capire. Sono andato anche a Brescia, Bergamo. La prima cosa che mi sono sentito dire, proprio da quelli dell’Atalanta, è stata: “Con questa testa non vai da nessuna parte, sei buonista”. Mi bollarono così: buonista.

«Eppure in questi mesi ho compreso tante cose. In questa società che è a-valoriale e a-morale, in cui una persona che studia è un povero cristo e in cui prevalgono i valori dell’effimero, il calcio è una delle poche forme di identità sociale rimaste. Identità che si sviluppano attraverso rituali che dobbiamo provare a capire se vogliamo risolvere il problema. La repressione, da sola, non serve. Serve nell’immediatezza dell’evento ma a medio-lungo termine no. E il nodo dell’identità non va rimosso, bensì valorizzato. Non possiamo far finta di non capire quale sia il problema. E non possiamo ignorare che l’Italia, oltre a difficoltà comuni con l’estero, ha l’aggravante del razzismo.

«Se noi vogliamo provare a debellare il fenomeno violenza negli stadi, dobbiamo condurre una battaglia per aprire gli stadi, renderli fruibili. E prendere atto che la violenza è insito nel meccanismo simbolico che gli ultras si sono scelti. Bisogna però incanalare nei giusti binari un passaggio chiave per loro: la morte simbolica dell’avversario. Che prima, magari, poteva avvenire anche grazie a una coreografia spettacolare che invece oggi è stata vietata.

«Il nodo è riuscire a offrire uno sbocco all’identità che altrimenti, in assenza di valori positivi, non può che indirizzarsi verso il razzismo. Il razzismo negli stadi in Italia andrebbe combattuto seriamente, con multe molto salate, seguendo il modello Thatcher. Questi soldi, però, non dovrebbero poi andare alla Federcalcio ma a una Fondazione che si occupi dell’educazione allo sport per le generazioni future. Altrimenti è tempo perso.

Esposito ha ricordato qualche esempio: i tifosi di una squadra scozzese che hanno impedito ai romanisti di esporre uno striscione anti-napoletani; «furono gli scozzesi a srotolare uno striscione con la scritta “tifosi sì, razzisti no”. Ha ricordato la figura di Socrates, «mio modello calcistico e politico»; e quel che successe a Bilbao in occasione di Athletic-Napoli, quando i baschi accolsero i nostri tifosi con la certezza di vincere, «perché loro non erano solo una squadra di calcio; no, loro erano la Nazionale basca, avevano un’identità ben definita di cui erano orgogliosi. E dopo la partita andarono a bere con i napoletani che assistettero alla loro festa. C’è modo e modo, quindi, per giungere alla morte simbolica dell’avversario».

Esposito è stato critico nei confronti del mondo ultras: «Hanno un atteggiamento sbagliato: il loro è un mondo troppo autoreferenziale. Ma occorre avviare un lavoro capillare nelle scuole per far comprendere che orgoglio e identità nazionale non sono l’uno contro l’altro, e che l’identità territoriale con la razza non c’entra nulla. L’obiettivo è che la morte simbolica dell’avversario diventi una festa, come a Bilbao». 

Interessante anche l’introduzione di Luca Bifulco, ricercatore in Sociologia, autore col collega Francesco Pirone del libro “A tutto campo – Il calcio da una prospettiva sociologica”. Bifulco ha cominciato ricordando quel che in precedenza era stato detto anche dalla direttrice del Dipartimento di Scienze sociali Enrica Amaturo e cioè «che è impossibile, in Italia, che chi si occupa di sociologia trascuri un fenomeno come il calcio. «Il calcio ha legami psicologici importanti, c’è l’idea di un avere un destino comune e l’appartenenza è sempre gratificante». 

Per Bifulco «lo stadio non è il luogo del demonio, come invece evidenzierebbe la percezione che si ha del fenomeno calcio. In verità lo stadio è quasi sempre il luogo dove si va a vivere questa passione, questa identificazione, nel miglior modo possibile. I livelli di insicurezza sono minori di quanto si percepisca. Noi viviamo in una società basata sulla repressione delle emozioni e dell’esternazione delle emozioni; ben vengano, quindi, luoghi dove possa esserci il rilascio di esse».

Bifulco non è un estimatore del modello inglese, ha ricordato come gli stadi, simbolicamente e non solo, hanno favorito il processo di democratizzazione nel Novecento.

«Lo stadio dev’essere configurato come un luogo di festa e quasi sempre lo è, a dispetto dei media che lo rappresentano invece come un campo di battaglia». Bifulco chiude con una proposta concreta: l’inserimento tra gli steward di persone del mondo associativo, quindi in grado di gestire situazioni simili. In un futuro più o meno prossimo, «l’auspicio – conclude – sarebbe di allestire dei veri e propri punti di accoglienza dei tifosi avversari».

Ci sono stati altri interventi interessanti. Il professor Carlo Sorrentino si è soffermato sull’informazione legata al calcio. «Non si raccontano più i fatti che oggi sono considerati banalmente evidenti. Ci si concentra sulle emozioni che i fatti producono. Tanto è vero che la partita dura novanta minuti, mentre di calcio si parla per sette giorni. Ed è raccontato sempre in una logica emotiva di contrapposizione, che poi è la logica degli ultras. Senza con questo voler dire che gli ultras siano il male, non sono il male ma il giornalismo semplifica il male. Il giornalismo sportivo adotta quasi sempre un racconto eminentemente contrappositivo».

Francesco Pirone si è invece soffermato sulla trasformazione del tifoso e sulla nascita di una nuova categoria: il teletifoso. Ha ribadito come il tifoso non sia un consumatore come un altro, «anche se i tifosi non sono tutti uguali». Le società possono seguire vari modelli per provare a conquistarne di nuovi. «Il modello inglese prevede un sistema diverso: far pagare di più a quelli che già vanno allo stadio; un modello contrastato dagli ultras. Poi si può pensare alla realizzazione di stadi che non siano solo arene ma luoghi di svago per famiglie. Una moderna società di calcio, oggi, non può non curare il suo brand. E deve stare attenta nella gestione del rapporto col tifo organizzato che è una vera e propria componente politica in grado di incidere sul brand attraverso comportamenti violenti e antisportivi».
Massimiliano Gallo

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