La passione per il Napoli tramandata ai miei figli
La passione per il pallone e per il Napoli, che erano sinonimi tra loro (non solo Napoli e pallone, ma anche passione), me la diede mio padre, oltre l’aria della città. Ora che è passato qualche anno e l’aria della città sa di Tevere e sanpietrini, per i miei figli sono solo io la prova […]

La passione per il pallone e per il Napoli, che erano sinonimi tra loro (non solo Napoli e pallone, ma anche passione), me la diede mio padre, oltre l’aria della città.
Ora che è passato qualche anno e l’aria della città sa di Tevere e sanpietrini, per i miei figli sono solo io la prova evidente di napoletanità. Non credo nelle purezze, anzi le contesto. Credo nei mescolamenti, nelle ibridazioni, nelle contaminazioni. Ma tradisco una malcelata malinconia quando dico: “guardate quanto è bella la vostra città”.
Della mia città, quindi di me, vorrei trasferire loro la morbida misurazione del tempo, rivoluzionaria in sé, quel finto disincanto che nasconde sempre una speranza, la luce delle giornate di sole. E – va da sé – il tifo per la squadra di calcio.
Li ho portati in vacanza a Dimaro apposta (mia moglie faceva finta di credere alla mia improvvisa passione per le cime di Lavaredo). Perché non li posso portare almeno un paio di volte allo stadio, che mi sarebbe più comodo (e poi anche Monte Mario, in fondo, ha una vetta). Vorrei dire che lo faccio per coscienza di padre, perché è pericoloso, per loro, ma so che in realtà lo faccio per me, per preservare nella discendenza quella gioia bambina verso il pallone che rotola e quei 22 in calzoncini che la inseguono.
Perché io allo stadio ci andavo tutte le domeniche, prima nelle grigie giornate che dovevano salvarci dalla B, e poi quando si ballava il “porompompero”, con i trenini che partivano sulle gradinate e ti trovavi a farti fila fila tutto lo stadio con le mani sulle spalle di un altro, e nel frattempo la partita andava, tanto ci pensava la MaGiCa: noi dovevamo cantare. Quando gli striscioni dei tifosi non avevano come regola stranianti participi in rima, ma erano molto più poetici: e non penso solo a quella zoccola di Giulietta. Quando noi avevamo la stessa insopportabile aria di perenne autocommiserazione, ma sopravanzata da una ironia di massa che la rendeva sopportabile. I veronesi invocavano all’andata il Vesuvio anche allora, ma noi (meglio: la curva B) al ritorno gli facevamo trovare come coreografia innumerevoli banane giganti (nulla a che vedere con quelle di Tavecchio).
E, soprattutto, quando alla fine delle partite, ma pure in mezzo, e anche prima, si cantava tutti il ritornello de ‘o surdato ‘nnammurato, perché noi ci sentivamo superiori in passione, quei 90 minuti erano insieme rivalsa da tutto, distrazione suprema, carnalità di massa. Chi se ne fotteva degli juventini?
Come faccio a portare i bambini allo stadio, al San Paolo, intendo, e spiegargli che tutte le ore a imparare la “e” muta alla fine di “core” e “ammore”, e il disco di Massimo Ranieri sapientemente ripetuto in casa, sono state inutili, perché oggi non la si può più cantare?
Io c’ero in piazza, quando Insigne non ha voluto parlare, alla presentazione della squadra. La dinamica non si capì, ci chiedevamo tra noi cosa fosse successo, e qualcuno che ad alta voce diceva: “E jammo bell’, ‘Insì!” ci fu, ma l’aria era quella di: “’O guaglione è proprio nu piccerillo, c’amma fa’!”. C’era paternalismo meridionale, non l’atmosfera carica di astio di martedì sera. Perché la composizione della tifoseria da ritiro estivo non è quella del rito ortodosso: famiglie, tanti bambini, una antica voglia di calcio come gioco. Quello che dovrebbe essere sempre.
Io ho portato i miei figli lassù perché era l’unico modo per fare vivere loro quella magia che ho vissuto io alla loro età. E quando in piazza a Dimaro all’improvviso è partito il coro “Oj vita, oj vita mia” ho visto i loro occhi illuminarsi, il napoletano storpiato finalmente partire felice, il senso di appartenenza ad una comunità, la mia, la nostra.
E mi sono commosso.
Andrea Camorrino