Egregio presidente De Laurentiis, mi perdoni se le darò del lei, ma purtroppo non esiste un altro pronome con cui mettere maggiore distanza fra me e la sua persona. Le porterò via solo pochi minuti, perché so che per lei il tempo è danaro. Le scrivo per una cosa che troverà insignificante e piccina, meglio così, mi facilita il compito. Le chiedo con queste poche righe di essere esentato dal mio lavoro decennale di simbolo della squadra di calcio del Napoli che lei presiede, perché ho smesso di sentirmi tale. È successo l’altro giorno, quando nel corso di una delle sue esternazioni che sempre più frequentemente offre al pianeta Terra ha avuto modo di definire sfottò gli appellativi di colerosi e terremotati che raccogliamo negli stadi di tutta Italia. Lo so, è un argomento volgare, basso. Ma io questo sono. Un asino. Un ciuccio.
Sono sicuro che neppure sa perché io sia il simbolo di questa squadra, tempo fa le scrissi attraverso il Napolista per chiederle di farmi sfilare sulla pista del San Paolo prima delle partite, come accadeva un tempo. Meglio che lei non mi abbia ascoltato, lasci le majorettes sulla pista. Io mi vergogno di essere accostato alle parole da lei pronunciate. Io non sorrido alla parola coleroso, né a terremotato, non ci riesco, che pesante che sono, non sono abbastanza colto, non ho abbastanza strumenti, non sono come lo scrittore Marsullo, che ieri sul Corriere del Mezzogiorno sospirava di soddisfazione per le sue frasi. Su un giornale che poi si chiama: del Mezzogiorno. Forse perché Marsullo è tifoso milanista, mette il tifo davanti all’identità, forse non gli sono morti parenti durante il terremoto, è giovane, non se le ricorda le file al Comune per far sparare il vaccino anticolera nel braccio dei nostri bambini. La paura di perderli. Lui non la conosce, lei presidente era altrove, forse a un party con Richard Burton, chissà dov’erano i direttori dei giornali napoletani.
Non mi consideri più uno dei suoi. La diffido dal vendere prodotti del merchandising con la mia faccia, il ciuccio, forse questa è la lingua che devo parlare, quella che lei conosce. La diffida, the revenues, il fatturato. Del resto, sulla nuova tragedia ambientale in Campania, i rifiuti tossici interrati, la prima cosa che le viene in mente è una class action. A questo si risolve il rapporto tra lei e noi, ed è giusto, lei fa l’imprenditore, l’imprenditore stavolta ha fatto una scelta chiara, evidentemente frutto di un calcolo. Ha scelto di stare dalla parte degli ultrà, di quei valori, chiamiamoli così: li ha difesi, li ha fatti suoi. Per non far dispiacere Galliani, forse per non imbronciare Agnelli. È inutile a questo punto che i signori delle curve facciano gli schizzinosi, loro e lei siete uguali, siete sulla stessa linea. Si tenga il suo stadio malato, presidente. Colerosi l’hanno cantato persino al San Paolo, e lei zitto.
Che vita triste, la sua, presidente. Noi altri, quelli che vorrebbero stadi migliori o nel frattempo un clima migliore in questi pessimi stadi, abbiamo accettato la tessera del tifoso, la schedatura, i tornelli, le perquisizioni all’ingresso, ci bagniamo se piove perché non si può portare dentro un ombrello, abbiamo accettato di non poter entrare con una bottiglietta di acqua minerale, ma i suoi amici ultrà portano dentro aste e petardi. Oh, non mi dica che non li conosce. Sono sicuro che se un giorno ci fosse una squalifica dello stadio, magari in un bel giorno da record d’incasso, a lei brucerebbe il culo. Non si lamenti quel giorno. Mi troverà di spalle, voltato dall’altra parte, come in un piano sequenza di Truffaut, o come Christian De Sica in una delle sue crasi. Non ha fatto neppure finta di essere stato frainteso, il giochino che le riesce meglio, quando dice: “mi hanno registrato di nascosto, era una conversazione privata”, se lo ricorda? È successo per Cannavaro stronzo e per Mazzarri scornacchiato. Titoloni, enfasi, ah, mamma mia, quello sì che scandalo. Colerosi e terremotati invece l’ha detto e non se lo è rimangiato. Posizione vergognosa per chi fa il presidente di una squadra che si chiama Napoli. Se solo lei sapesse che scrigno di tesori è quel nome. Napoli. Una volta allo stadio si urlava. Napoli, Napoli. Si tenga questo calcio, presidente. Faccia il capitano d’industria. Continui a strafottersene dei beni immateriali, dell’identità e dei simboli. Io la lascio qui. Metto in frigo una bottiglia di spumante. La stapperò nel giorno in cui dirà di essersi sbagliato oppure quando lei se ne andrà. Solo una cosa, nel frattempo. Non mi faccia più vedere che vende il ciuccio in peluche.
Il Ciuccio