Era una delle domande della fatidica serata di Dimaro: “Riusciremo a raggiungere i livelli di Real Madrid e Barcellona?”. Ora è Laurentiis ha rilanciato il concetto in un’intervista al Corriere dello Sport: “Vogliamo diventare come il Barcellona”. Chiacchiere agostane. Puntiamo al sodo: guardando al futuro, perché non essere più credibili e dire: “Puntiamo ad essere come il Bayern Monaco (magari, ci basterebbe anche solo il Leverkusen)”?
Il modello spagnolo è il sogno di tutti tifosi: trionfi, ribalta mondiale e opulenza. Ma in un mondo come il nostro, dove il sogno è quintessenza della passione sportiva, c’è bisogno di qualcuno che riporti i piedi per terra. Avere un’ambizione del genere è qualcosa di puramente illusorio: a certi livelli non ci arriveremo mai, inutile metterci il pensiero. E, per di più, è una stronzata. Se vogliamo essere intellettualmente onesti, la nostra ambizione non è la Spagna o l’attuale Psg, ma la Germania. L’austera e autosufficiente Bundesliga.
Partiamo dal presupposto che il grande calcio non ha mai avuto un modello industriale, in Italia come all’estero. La struttura produttiva è quella di un’azienda in forte perdita nella quale il magnate (ricco per altre attività) investe per ragioni di visibilità, consenso o pura follia. Erano così il Milan di Berlusconi, la Juve degli Agnelli, l’Inter di Moratti; su questi presupposti sono falliti o si sono persi i vari Cecchi Gori e Sensi.
Oggi viviamo tempi di crisi e il calcio italiano paga lo scotto. A fare la parte dei padroni sono club che militano in Premier, Ligue 1, Liga o Russia. Noi ci teniamo tanto a riempirci la bocca sull’importanza degli stadi di proprietà, del merchandising spinto, del calcio-evento. Ma la verità è che il modello del grande calcio non è mai cambiato: aziende in perdita, magnate a ripianare.
Con tutto il museo del Bernabeu visitabile 364 giorni all’anno, è notizia di oggi che il Real Madrid, se fosse fallita Bankia, l’avrebbe seguita nello stesso destino. Il Barcellona (quello delle magliette di Messi vendute dal Po alle Ande e dei titoli su tutti i fronti) ha 600 milioni di debiti. Che cosa sarebbe stato il calcio spagnolo senza la Legge_Beckham sugli ingaggi dei calciatori e il rapporto preferenziale tra istituti di credito e top club?
Ma anche la Spagna è vecchia, ora c’è il nuovo che avanza. E questo nuovo corrisponde ai magnati euroasiatici del gas e del petrolio che decidono di investire nel calcio, seguendo il paradigma storico dell’azienda in perdita e della ricapitalizzazione annuale. Al 2011, il Chelsea di Roman Abramovich aveva debiti per 900 milioni di euro verso il suo stesso proprietario, mentre nello stesso anno il bilancio del Manchester City dello sceicco Mansour segnava un rosso di 227 milioni di euro. Del bilancio del Psg sapremo di più l’anno prossimo, ma non è difficile fare delle previsioni.
Allora di che stiamo parlando? Il calcio italiano, come sappiamo e come è certificato dal report della stessa Figc, è in crisi. Quelli che fino a ieri erano i nostri top club tirano la cinghia. Il nostro Paese è particolarmente abile nel repellere i grandi investitori stranieri (non solo nel calcio), tenendo comunque presente che lo sceicco non è sempre sinonimo di grandi soddisfazioni. A Malaga dal 2010 il presidente della squadra di calcio è lo sceicco Al Thani, fratello di quello del Psg. Risultato? Dopo la qualificazione ai preliminari di Champions, il giocattolo si è rotto: I giocatori non percepiscono da tre mesi lo stipendio e sono pronti a portare la società in tribunale.
Tornando a noi, ha allora senso frignare? Ci rendiamo conto che non possiamo pretendere certe vette, che – a certi livelli – siamo fuori dai giochi?
Quando si dicono certe cose, in realtà, non si fa che ribadire l’ovvio. Ma il tifoso ha bisogno di essere sferzato, di essere zavorrato anche nelle sue fantasie. Per il suo bene, tanto l’alternativa è: vola, vola con l’immaginazione, ma alla fine sempre a terra ritorni.
E qui veniamo alla Germania. Sempre lei. Perché, da un decennio a questa parte, i club della Bundesliga si sono dotati di un vero modello economico. Stadi di proprietà, nonché multifunzionali, che fruttano la più alta affluenza media d’Europa (42mila spettatori a partita) e investimenti nei vivai (tutti i club della prima e seconda serie devono schierare una squadra per tutte le categorie, dagli under 12). Soprattutto, attenzione spasmodica ai bilanci (nel 20102011, 12 squadre su 18 hanno chiuso l’anno in attivo) e rapporto debito-entrate contenuto al 39 per cento (contro il 246 della Spagna e il 129 dell’Inghilterra).
Vogliamo prendere un esempio valido cui ispirarci? Allora guardiamo al calcio teutonico, dove il Bayern Monaco nel 2011 ha chiuso il bilancio in utile.
Certo, direte voi, mica male. Sono i vice-campioni d’Europa. Lo so, dico Bayern per fare l’esempio più facile.
Però guardare alla Germania significa anche dare dei limiti alle proprie ambizioni. I club tedeschi non competono sul mercato con i grandi ricchi del petrolio e dei deserti, che avranno sempre maggiore liquidità, oltre che capacità di spesa e di ingaggio. I giovani talentuosi se li crescono in casa, più che pagarli una fortuna in sud America. I campioni ogni tanto li vedono andare all’estero. Nelle competizioni internazionali partono sì tra le favorite, ma un passo indietro rispetto alle solite note.
Magari mi sbaglio, un domani vedremo un Napoli “galactico” vincere alla grande con debiti stellari quanto i suoi campioni. Ma nel frattempo, prima che ciò accada, fate un buon esercizio di sobrietà: realizzate che non andrà così.
Roberto Procaccini