Quando il professore di ginnastica mi rifilò quello schiaffone

L’episodio di Delio Rossi mi ha richiamato alla mente quello accaduto a me. Circa cinquant’anni orsono. La prendo da lontano. Al Vomero ho vissuto la parte più bella della mia vita. Dai dieci ai cinquant’anni. Quando vi arrivammo era certamente un quartiere di giovani. Mio padre di anni ne aveva soltanto trentotto e mamma trentasei. […]

L’episodio di Delio Rossi mi ha richiamato alla mente quello accaduto a me. Circa cinquant’anni orsono. La prendo da lontano.

Al Vomero ho vissuto la parte più bella della mia vita. Dai dieci ai cinquant’anni. Quando vi arrivammo era certamente un quartiere di giovani. Mio padre di anni ne aveva soltanto trentotto e mamma trentasei.

Era l’inizio degli anni sessanta. Cinque stanze. Stanzetta. Cucina. E due bagni. Una casa di cooperativa. In un parco. Pieno di alberelli e giardini. Addio alle quattordici camere su via Foria. Ai pavimenti ballerini. Alle bagnarole di stagno. Alle scale lunghe, pesanti e dissestate. C’era l’ascensore nella casa nuova. Ed il citofono. Una casa giovane insomma. Le cui mura avevano il colore e gli odori della gioventù.

Quel parco ospitava uno spaccato del mondo impiegatizio di allora. Un mondo piccolo borghese. Un mondo che assaporava il boom economico. Popolando quelle palazzine spuntate sulla campagna di don Nunzio. Il vecchio mite analfabeta che fungeva da guardiano notturno. Come ricompensa dell’esproprio della sua terra. I ragazzini di sera ogni tanto ascoltavano i suoi racconti. Di guerra. Di vita. Di campagna. Uomini tutti poco sopra o poco sotto i quarant’anni. Giovani quindi. Donne quasi tutte casalinghe. Giovani anche loro. Ma già invecchiate nei loro abiti modesti. Una folla di ragazzini divenne proprietaria incontrastata dei viali del parco. Ed i viali del parco ospitavano i loro giochi. Le loro chiacchiere da adolescenti. Custodivano i loro segreti. Divennero il loro mondo. Il luogo d’incontro era la ringhiera di ferro che separava quel parco da un altro. Il parco di sopra dal parco di sotto. Ci vediamo giù alla ringhiera… Passavano gli anni e sempre lì ci incontravamo. Per parlare tra noi. O per decidere che cosa fare. E con il passare degli anni giù alla ringhiera si incrociavano le generazioni. Noi ormai quindicenni o sedicenni con i nuovi ragazzini di dieci anni. A cui insegnare. Trasmettere. Ragazzini da incuriosire. Da meravigliare.

Il percorso era facile. Papà me lo aveva insegnato. La prima volta lo avevamo fatto insieme. Da via San giacomo dei Capri a piazza Vanvitelli. Passando per piazza Medaglie d’oro. Un percorso facile da imparare. Fatto di poche linee rette. Per me erano strade sconosciute. Conoscevo bene via Foria. Via Duomo. Via Cirillo. Piazza Cavour. Ma non le strade del Vomero. E quel percorso quasi spaventava me ragazzino. Mi sentivo osservato come un intruso mentre a passo veloce raggiungevo la nuova scuola. La scuola media. Viale delle Acacie. Lì accanto,il prestigioso liceo Sannazzaro. Insegnanti mitici Cupaiuolo, la Girosi … Nella zona più europea della città. Bellissime case panoramiche. Viali (boulevard?) alberati che partono da piazza Vanvitelli ed a raggiera fuggono per portarti a San Martino, a Posillipo o al centro della città. Io abitavo nell’altro Vomero. Quello che si arrampicava lentamente verso la collina dei Camaldoli. Quello che nasceva con la ripresa del dopoguerra. Che si popolava di persone. Di tv. Di lavatrici. Di seicento. Quello dei parchi.

E venne il quarto ginnasio. Poi il quinto. Al Sannazzaro. Scuola cupa e severa. E venne quel giorno.

Il giorno dello schiaffo. Il professore di lettere, quello di matematica, quello di francese e lui… il giovane insegnante di ginnastica .Che vuoi che contasse il suo sapere rispetto a quello di chi spiegava l’ Anabasi di Senofonte o il Cid Campeador ? E noi lo avvertivamo. L’ora di ginnastica era soltanto un’ora di libertà. Forse eccessiva. Ma che poteva capire di ciò un gruppo di ragazzini di tredici o quattordici anni?

Così quel giorno mi lasciai andare a qualche risolino di troppo. Il ’68 non era ancora arrivato. La cosa non era tollerabile. E il professore mi diede uno schiaffone. Si proprio uno schiaffone. Colpendomi pesantemente sull’orecchio destro. L’umiliazione fu terribile. Anche se forse lo schiaffo non era del tutto immeritato. Ma davanti ai compagni … e che diavolo. Una nota in condotta si. Cacciarmi fuori si … ma uno schiaffo davanti ai compagni proprio no. Scoppiai a piangere, cominciai a gridare, dissi che ero diventato sordo e mi feci portare al Cardarelli. Dove mi venne a prendere papà. A scuola fu il panico. Si temevano denunce, ritorsioni, querele. Il giorno dopo mio padre mi accompagnò a scuola e incontrando il preside gli disse “ Il professore è stato un vigliacco . Solo che non me la sento di rovinare un giovane. Anche perché mio figlio ha il suo pezzo di responsabilità.“ Il professore di ginnastica si scusò e la cosa finì lì. Certo dovettero costargli molto quelle scuse. E francamente mi sentii un po’ vigliacco anche io. (Piccolo particolare a giugno fui respinto.)

Guido Trombetti

(Parzialmente tratto da un articolo già pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno)

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