Quella volta a Londra di nascosto (per Quagliarella)

Vi faccio una premessa: io ero e sono convinto che Cagliari prima e Udinese e Siena poi siano partite immensamente più importanti di quella contro il Chelsea. Dovessi vendermi l’anima, saprei su cosa puntarla. Ma ora non ragiono più, il cuore è a mille, l’ansia mi distrugge. Ora la sento tutta addosso la partita più […]

Vi faccio una premessa: io ero e sono convinto che Cagliari prima e Udinese e Siena poi siano partite immensamente più importanti di quella contro il Chelsea. Dovessi vendermi l’anima, saprei su cosa puntarla. Ma ora non ragiono più, il cuore è a mille, l’ansia mi distrugge. Ora la sento tutta addosso la partita più importante della nostra storia, i sogni che mi porterei venerdì al sorteggio. La verità è che voglio che sia mercoledì notte, subito, comunque vada. Come agli esami di maturità o all’orale per diventare giornalista professionista. Perché io li vedo in faccia Walter e i ragazzi e capisco che loro ci credono. Quei pazzi che ci fanno sognare anche quando diffidiamo- anzi, no, non lo faccio il finto modesto: diffidate, io mi son cuccato belle prese in giro per non averli mai mollati- hanno questo segreto, per loro nulla è impossibile. Per questo li amo follemente, per questo mi sembra una delle squadre più “napoletane” di sempre, per questo ci tolgono il respiro a ogni azione, in difesa e in attacco. Perché nel Napoli Aronica può giganteggiare sul sito dell’Uefa, perché la doppietta del Pocho vale 50 gol di Messi.

Ora, dopo la mia premessa, voi fatemi una promessa: non smettete di leggere questo pezzo dopo aver letto la prossima parola. Quagliarella. Lo so, spero non ci siano minorenni davanti allo schermo, ho esagerato. Ma a me ora viene in mente lui. Per un motivo di perfidia personale e per un bel ricordo. So che è inopportuno e anche un po’ volgare pensare al traditore in queste ore di vigilia, ma fatemi almeno spiegare.

Il motivo “cattivo” è immaginarlo ora, a Torino, davanti alla tv. A mangiarsi il cappello come Rockerduck, dopo una stagionaccia come quella dell’anno scorso e dopo le dure panchine di quest’anno in quella brutta squadra che non si deve neanche nominare. Godo, al pensiero, lo cofesso e io, normalmente, non porto rancore. C’è un pezzo qui sul Napolista a testimoniare il mio amore per i giocatori che hanno vestito la nostra maglia, anche quelli scarsissimi. Li seguo con affetto, anche quando ci fanno male (vedi Denis e Calaiò, che ci hanno pure segnato in tre partite fondamentali. A proposito Arciere, forza e coraggio, dobbiamo passare anche per te!). Ma lui no, lui ha giocato con i nostri sentimenti, si è fatto amare, sostenere, perdonare, esaltare. E poi è scappato via come un ladro. Lui no. Eppure, ora che siamo a Londra, allo Stamford Bridge, non posso non ricordarmi di due anni fa. Trofeo Bobby Moore, il giorno che ho sentito d’esser tornato grande. Contro il Benfica, non feci in tempo, uscimmo subito nonostante quella vittoria all’andata. Ma quel giorno, quell’amichevole contro il West Ham- non certo una squadra di fenomeni- fu tutta un’altra cosa. E chissà perché. Forse perché ero là (accidenti, potevo farci uno striscione allo stadio: magari mi davano un biglietto in extremis). Ed esultai come faccio a ogni coppa, perché io li ricordo tutti i nostri trofei (persino un triangolare a Trieste, tristissimo), soprattutto quelli in amichevole che per 20 anni sono stati gli unici a conosolarci. Io li voglio sempre vincere tutti, perché non si sa mai se l’inferno si riaprirà già l’anno dopo.

E quel giorno d’agosto segnò Quagliarella- scusate, lo so, fa schifo persino a me scriverlo- e io ero lì di nascosto. Scappai da un festival, non lo dissi a nessuno (ecco, ora un paio di persone si incazzeranno di brutto) e volai a Londra per una trasferta improvvisata e allo stesso tempo pianificata da parecchio. Non eravamo molti, forse alcuni si erano persi a Gela e Sora, chissà. Ma ridevamo tanto e, come all’inizio di questa Champions, non ci credevamo. Eravamo già solo felici d’essere là, che nella terra in cui inventarono il calcio si fossero ricordati di noi. E vincemmo, a un quarto d’ora dalla fine, segnò quel finto Masaniello, quanto lo adoravamo: ci sembrò tanta roba, festeggiammo fino a tarda notte, i londinesi sorridevano esterrefatti. Sembravamo un po’ scemi, e lo eravamo. Eravamo pazzi per il nostro Napoli, come sempre. E una cameriera londinese, che tifava Chelsea, e che con tutto l’alcol che avevo in corpo mi sembrava bellissima, mi disse: “Diego Maradona, the best”. E poi con il sorriso di una tifosa disse “We’ll meet for Chelsea- Napoli. Champions League”. Risi, dicendole che forse sarebbe accaduto nel 2019. Sbagliavo. Volevo andare a Londra e portarla allo stadio, perché un po’ è anche merito suo. Non me l’hanno permesso, e chissenefrega. A casa di mia sorella Tania, con Alessandro, Domenico, Caterina, Dario, Carlo e Daniele ho tutto e tutti quelli che voglio. Con la telefonata rituale con Ferdinando e il messaggio a Ilaria, io giocherò in casa. E allora penso al Villareal. E so che questa paura, questa tensione cresceranno, anche se mi sembra impossibile, perché già così è troppo. E penso ai miei amici di Barcellona e Bruxelles, al gruppo di Oj vita mia in un pub, ai ragazzi di Potenza e a quelli di Roma Azzurra. E capisco che noi il nostro Stamford Bridge ce l’abbiamo già: stando insieme, noi che applaudiremo comunque. Perché un sogno meraviglioso ce l’hanno, ce l’avete già regalato. Grazie ragazzi.

Boris Sollazzo

P.S.: eh, però, dal sogno non mi svegliate Pocho, Matador e Marekiaro! Io voglio applaudire dalla felicità! E tu, Morgan, consegna il tuo talento alla leggenda. Ho sognato le prime pagine dei giornali inglesi dedicate a te.

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