Al San Paolo ci sono troppi tecnici e pochi che osservano realmente la partita

Domenica, ore 15, tribuna Posillipo. Gli abbonati alla mia destra non ci sono. A pochi istanti dall’inizio della partita arrivano tre tipi da curva, a voler seguire le caratterizzazioni fisiche e di abbigliamento che spesso non sopporto in quanto fuorvianti. Uno di loro, che per comodità chiamerò Mario, si siede accanto al Martire. Subito irrompe […]

Domenica, ore 15, tribuna Posillipo. Gli abbonati alla mia destra non ci sono. A pochi istanti dall’inizio della partita arrivano tre tipi da curva, a voler seguire le caratterizzazioni fisiche e di abbigliamento che spesso non sopporto in quanto fuorvianti. Uno di loro, che per comodità chiamerò Mario, si siede accanto al Martire. Subito irrompe con la sua presenza. Magrolino, alto, ha le braccia interamente ricoperte di tatuaggi, capelli corti e una leggera peluria sul viso. All’apparenza trasandato, anche nei vestiti. Si agita, non sta fermo un istante, non smetterà di incitare la squadra neppure per un momento. Gli tremano le mani mentre finisce tutte le sigarette in dotazione (fuma per l’intera partita, costringendo noi a fare lo stesso, ma con l’accortezza di non farci andare il fumo in faccia), poi chiede continuamente al suo amico, che ha occupato un posto libero due file più sotto, di offrirgli da fumare. È un continuo passarsi un accendino rosso, che assomiglia alle maglie del Catania. Mi incanto a guardarlo, a sentirlo commentare. Quando tutta la tribuna dà addosso a Mazzarri per aver tirato fuori Fernandez, lui se ne fotte dell’ostilità generale e, con la semi compostezza di chi sa il fatto suo, chiede che ci azzecchi contestare il mister se è lo stesso Federico ad aver chiesto la sostituzione. Santiddio, nessuno di noi se ne è accorto (e, dopo scoprirò, neppure alcuni giornalisti dalla tribuna stampa), lui sì. Quando vede Pandev scaldarsi a bordo campo si esalta: “ti faccio vedere che mo cambia la partita” dice, un po’ rivolto al Martire un po’ al compagno alla sua destra. Punizione per il Napoli, Gargano si porta sulla palla e iniziano i mugugnii della tribuna. Tutti si lamentano perché, nell’immaginario collettivo, Walter e le punizioni sono distanti anni luce, cosa che in effetti è confermata dalla punizione in sé. Lui no. Si incazza ancora una volta. Nei lamenti generali urla a tutti di aspettare. Quasi sottovoce dice “e che cazzo, manco ha tirato che già gli danno addosso, e guardatevela la partita, no?”. Poi si infervora di nuovo, si agita tutto mentre esclama “diecimila tecnici sono diventati, int’a ‘sta tribun’ ‘e sfaccimma”. Ammetto di aver riso come una pazza a questa affermazione. Perché Mario in fondo c’ha ragione. I mugugnii e le pretese di sapere già come andrà la partita sono insostenibili, e infatti dal 2-0 per noi si passa in un baleno al 2-2 che rappresenta, oggi, la perdita di due punti sostanziali, altro che punto guadagnato, come contro l’Udinese. Mentre siamo a quindici minuti dalla fine, prima della rocambolesca rimonta degli undici di Montella, continua a muoversi sul sediolino “quando cazzo finisce ‘sta partita??”. Non ce la fa, non gli passa, come non passa a nessuno di noi. Gervasoni non fischia, neppure i falli sul campo, fischia. Il vero tripudio, però, è stato quando Dzemaili ha segnato, da 25 metri. Mario è impazzito, letteralmente. Si è scagliato sul Martire, in qualcosa di molto simile ad una violenza sessuale. Aveva una faccia talmente bella da farmi venire voglia di fotografarla. A metà tra la commozione e la gioia pura, come se quel gol fosse tutta la sua vita. Gli occhi ridevano talmente da sembrare un mare blu e profondo, di quelli sottocosta in una domenica di marzo in cui il tempo è pazzo. Una tale lucentezza mista ad esaltazione pura sarebbe stata da immortalare. Il Martire, dal canto suo, era abbastanza spaesato. Mario lo strattonava, il Martire era incapace di muovere un solo muscolo. Persino gli occhiali da sole hanno risentito dell’esultanza di Mario. Io, poi, quando ho visto che Mario non mollava la presa mi ci sono buttata sopra con tutta la mia gioia. Gli ho afferrato il braccio e ho iniziato a strattonarlo pure io. Un po’ per rimarcare il fatto che quello (il Martire) fosse territorio mio, un po’ perché ero troppo felice per quel gol, e un po’ perché Mario la presa proprio non accennava a mollarla. Quando, a pochi minuti dalla fine, la gente ha iniziato ad abbandonare lo stadio, amareggiata dal brutto pareggio, Mario è rimasto là, li ha guardati tutti un po’ incattivito ed ha esclamato “ma aro’ vann’sti sciem che la partita ancora deve finire?”. “Eh”, ho detto io mentre assistevo alla resa dei nostri in campo. Mai sentita tanto vicina a qualcuno. Un tipo da curva in tribuna. Speriamo che torni ancora, Mario.
Ilaria Puglia

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