NAPOLI — Raffaele Cantone, ha letto? Il boss Antonio Lo Russo, nelle vesti di capo ultrà, andava anche a casa di Lavezzi, che ovviamente non sapeva fosse un camorrista.
«È inquietante. Io, in questa storia, ci vedo due segnali gravi».
Il primo?
«La camorra si confonde sempre più con la società civile».
Il secondo?
«Com’è possibile che certi soggetti riescano a raggiungere campioni così blindati? Chi è che li mette in contatto?».
Raffaele Cantone, ex pm anti-casalesi oggi in Cassazione, ha un pallino (investigativo) per le storie di boss e pallone, tanto da aver dedicato un intero capitolo al calcio nel suo ultimo libro, I Gattopardi. E sull’argomento ci tornerà, ché «il calcio anticipa tendenze, è una cartina di tornasole. Le squadre italiane che oggi non contano più nulla, l’assenza di grandi manager, la rinuncia agli investimenti, non sono altro che lo specchio della crisi delle imprese. E la nazionale in difficoltà e i grandi campioni che rinunciano a venire in Italia sono il segno della decadenza del Paese».
Scusi, ma che c’entra tutto questo con la camorra?
«C’entra, eccome. I clan sono un momento di questa società. E, attraverso il mondo del calcio, si possono leggere anche le loro dinamiche».
Dice che da ventidue ragazzi che corrono dietro a un pallone possiamo intuire le tendenze dei nuovi boss?
«Dico che la vicenda del boss che va a casa di Lavezzi, insieme a quella di Hamsik, fotografato con un altro camorrista senza sapere chi fosse, ci racconta per esempio l’evoluzione della camorra».
Come?
«Il passaggio da Maradona a casa dei Giuliano al boss che bussa alla porta di Lavezzi è il passaggio dall’immagine della camorra squarciona degli anni ’80 ai clan mimetizzati. Quei boss amavano mettersi in mostra, esibendo le foto del campione nella loro vasca da bagno a forma di conchiglia. Questi, come nel caso di Lo Russo, si presentano invece in tono dimesso, si fanno introdurre da ambienti imprenditoriali. Insomma, almeno esteriormente non si manifestano nel modo tipico dei camorristi».
E allora come si fa a individuarli? È impossibile?
«È difficilissimo. Ora è capitato a Lavezzi, che è straniero e Napoli non la conosce. Ma non mi meraviglierei neppure se in vicende di questo tipo finissero coinvolti personaggi napoletani. Non è un caso che un campione del mondo come Fabio Cannavaro sia stato in contatto con un imprenditore poi accusato di riciclare i soldi dei clan».
Toccherà mica chiedere il certificato penale a tutti quelli che da oggi in poi stringono la mano a un calciatore?
«No, sarebbe sufficiente intervenire prima».
Cioè?
«Il vero problema non è il contatto in sé stesso, sono i canali attraverso cui questo contatto avviene. C’è da scoprire qual è la strada utilizzata dai camorristi per poter avere un aggancio con soggetti che vivono blindati».
Be’, evidentemente non sono tanto blindati.
«Lo sono per il tifoso medio. Quante occasioni ha uno che paga il biglietto ogni domenica di creare questi rapporti? I camorristi, invece, arrivano a bordocampo, si fanno fotografare con Hamsik, bussano alla porta di casa di Lavezzi. Un trattamento così è riservato ai vip, agli sponsor, non al tifoso comune».
Che fa, ora darà mica la colpa al Napoli?
«Assolutamente no. La società neppure sa chi siano questi soggetti, beninteso. Ma c’è qualcuno, chiamiamolo un mister X, che si adopera per mettere in contatto camorristi e calciatori. È lui che bisogna cercare».
Magari è ignaro anche lui. O in buona fede.
«Macché. Lo sanno tutti che il calcio è strumento fondamentale per il consenso. L’essere andato a casa di Lavezzi, in quel mondo, è un segno di potere spaventoso, un modo per dimostrare che si conta. E ai boss il calcio serve a questo: a contare, a raggiungere ambienti altrimenti distanti. E più ci penso, più mi inquieta pensare a quella tribuna vip dello stadio San Paolo».
C’è brutta gente?
«Tutt’altro, c’è tutta la Napoli che conta. La Napoli della politica, della magistratura, delle forze dell’ordine, dell’imprenditoria. Cosa accadrebbe se questo mister X portasse un camorrista all’apparenza perbene lì dentro e lui si mettesse a chiacchierare con il vicino di sediolina? Quella tribuna è una formidabile occasione d’aggancio per i clan che si mimetizzano».
Intanto quei clan agganciano i giocatori. Non è che s’arriverà a metterli sotto tutela?
«I calciatori spesso sono soli, vivono in ambienti estranei ai loro, molti sono stranieri. Facile, dunque, che stringano amicizie con quelli che si mostrano più affettuosi, simpatici, generosi. Il problema è che però non sanno chi siano quei soggetti, quindi ci vorrebbe una guida, una persona che controlli questi rapporti personali».
Una persona del Napoli?
«Sì, la società secondo me deve farsi carico della tutela dei suoi giocatori. Detto questo, è anche vero che non deve fare da balia. Diciamo che vanno aiutati solo a non sbagliare frequentazioni».
Dunque bene ha fatto Aurelio De Laurentiis a portare il Napoli via da Napoli?
«L’iniziativa del presidente è stata senz’altro utile, è un modo per mettere le distanze tra la squadra e certi ambienti. Devo dire, però, che suona come una sconfitta per Napoli. Fossimo una città normale, avremmo una squadra che s’allena a Secondigliano».
Gianluca Abate (Corriere del Mezzogiorno)