Sabatini: «Luis Enrique a Roma lo chiamavano Stanlio, non faceva favoritismi. De Rossi ne era affascinato»

Alla Gazzetta: «Mi diceva che gli sembrava la prima volta che giocava al calcio, visto che Lucho chiedeva cose a loro sconosciute. Al Psg ha realizzato ciò che voleva fare anche a Roma».

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Paris Saint-Germain's Spanish headcoach Luis Enrique looks on from the technical area during the UEFA Champions League semi-final second leg football match between Paris Saint-Germain (PSG) and Borussia Dortmund, at the Parc des Princes stadium in Paris on May 7, 2024. (Photo by Odd ANDERSEN / AFP)

Walter Sabatini portò nel 2011 Luis Enrique alla Roma, anche se all’epoca in Italia il vincitore della Champions League 2025 non fu capito. Ne parla proprio Sabatini in un’intervista alla Gazzetta dello Sport.

Sabatini: «Luis Enrique a Roma lo chiamavano Stanlio, non faceva favoritismi»

Si ricorda di un certo Luis Enrique?

«Certo, ho affetto e stima profonda sia per l’uomo sia per l’allenatore. Me lo segnalò Dario Canovi, che era in contatto con il suo agente. Poi mandai Ricky Massara e Pasquale Sensibile a vedere un paio di partite del Barcellona B. E tornarono estasiati dal suo modo di giocare».

Quanto è diverso oggi dall’allenatore visto a Roma?

«È cresciuto e invecchiato. Ma soprattutto è passato da una tragedia immensa come la scomparsa di Xenia, la figlia. Ma Luis ha saputo reagire in modo superbo, con una dignità eccezionale: non vuole essere compianto, consolato. È come se avesse un patto segreto e intimo con la figlia, quasi come se si parlassero».

Il Psg oggi è davvero “ingiocabile” per chiunque?

«Oggi è la squadra più forte di tutte, guidata dal miglior allenatore del mondo. Giocano con un’autorità e un ottimismo incredibile. Pensano di riuscire a far qualsiasi cosa perché poi con la palla fanno qualsiasi cosa. Contro ogni avversario. Hanno dei talenti incredibili, giocatori di uno spessore superiore. E Luis riesce a fargli giocare un calcio sublime e concreto: movimenti incessanti, cambi di posizione e di ruolo. I giocatori hanno una fede incrollabile in ciò che fanno e questo è sicuramente un merito dell’allenatore».

Ma come è possibile che questo Psg si è spinto fin dove non è mai riuscito ad arrivare quello con Messi, Neymar e Mbappé?

«Perché quelli erano giocatori straordinari, ma non disponibili al sacrificio. Guardate invece come gioca oggi Dembélé, con una generosità eccezionale. O Kvaratskhelia, che rincorre l’avversario per 60 metri… E poi Desire Doué, che è il più forte di tutti, ma è sempre pronto al sacrificio. Il Psg è una squadra piena di fede e orgoglio».

Il Mondiale per club lo vince il Psg?

«Sì. Luis Enrique lì è riuscito a realizzare il suo progetto calcistico, quello che voleva mettere in piedi anche a Roma».

Ma perché lui a Roma non funzionò?

«Semplice, l’ambiente non lo ha trattato decorosamente, c’è chi lo chiamava addirittura Stanlio. E lui di tutto ciò rimase dispiaciuto. Io, Baldini e Pallotta lo abbiamo supplicato di restare, ma non ne ha voluto sapere. Il Psg ha rinunciato alla propria strategia di acquisire giocatori, puntando tutto sui giovani. Ecco, se a Roma avesse trovato la stessa fiducia che ha trovato a Parigi allora sarebbe stato diverso. De Rossi era affascinato, veniva spesso nel mio ufficio per dirmi che gli sembrava la prima volta che giocava al calcio visto che Lucho chiedeva ai giocatori cose a loro sconosciute».

Per come lo conosce lei, Luis Enrique come conquista i suoi giocatori?

«Perché è un grande lavoratore ed è equo, con lui non esistono favoritismi. È un allenatore “giusto” e di questo i giocatori se ne accorgono. Con noi il suo criterio di giudizio non si spostava mai: quello che era per Totti valeva anche per Bertolacci».

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