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L’idea di calcio di Sarri deve affrancarsi da quella di famiglia

“Hamsik centrale vorrebbe dire ammazzare Jorginho” è una frase che svela la concezione calcistica di Sarri. Che dovrà superare se vorrà consacrarsi (e noi con lui).

L’idea di calcio di Sarri deve affrancarsi da quella di famiglia
Sarri in un’illustrazione di Fubi

I minuti successivi ai novanta di partita sono duri e la sconfitta col Besiktas brucia ancora. Ma Sarri si presenta lucido ai microfoni rispondendo con la sua consueta disponibilità. Jorginho sale immediatamente sul banco degli imputati, ed il tecnico con freddezza fa notare che il giocatore non è la causa ma il sintomo di una squadra ammalata che si allunga oltre ogni ragionevolezza durante la gara. Allora gli si domanda se si poteva provare un cambio a centrocampo, magari con Hamsik pivot e Allan e Zieliński laterali ed il tecnico risponde che la soluzione gli piace, ma ammazzerebbe Jorginho.

Schiettezza e linguaggio di Sarri non sono in discussione. Sono anzi, da sempre, la cifra stilistica dell’allenatore toscano che generalmente ha in animo quanto costruisce con le parole. Non potrebbe essere più chiaro: cambiare un giocatore che soffre difficoltà dovute agli equilibri precari del gruppo equivarrebbe a lanciargli un segnale inequivocabile, una bocciatura che lo ammazza. È un lessico crudo e filiale. Perché l’idea di Sarri ha una connotazione familiare. E, come è stato giustamente notato, egli allena un’idea più che una squadra, un modello nel quale degli atleti dovranno immergersi con una fiducia incrollabile al punto da richiedere loro uno spirito di abnegazione. La squadra deve cercare il divertimento – ha ripetuto spesso – e in questo orizzonte il divertimento è anche il dimenticarsi di sé. Dimenticare di controllare se il compagno cui indirizzi il passaggio all’indietro esista davvero, confidare ciecamente nella sua presenza se è l’idea collettiva di gioco a prevederne l’esistenza. Poi capita che il gioco rallenti, i meccanismi si inceppino e sbuchino gli avversari, e quella palla finisce sui piedi dei turchi e poi nella tua porta.

In passato si è raccontato del tecnico toscano e dei suoi abbracci. Di quello che simboleggiò la rinascita di Higuain. Questa componente materiale, questo filo comune di sangue certamente esiste nel rapporto che Sarri alimenta con i suoi calciatori. Lo spogliatoio è quel gruppo di diciotto uomini che tentano il colpo di stato – la pronunciò lui questa frase, e la scambiammo per una battuta. Ma non lo era. Sarri raramente scherza con le parole.

Per dissolvere l’individualità nel suo collettivismo calcistico – che pure ha creato il più armonioso gioco della storia del Napoli – c’è bisogno di una fiducia che solo un legame di sangue può produrre.

Questa è la firma di Sarri, la materialità che lo avvicina anche al ventre della città più di quanto sia accaduto ad ogni altro suo predecessore nell’ultimo decennio. Ma anche il suo limite: la soluzione che può dischiudere una estetica calcistica sublime è anche difficilmente scalabile, integrabile, riadattabile, specie su realtà complesse. Il gruppo di intrepidi funziona bene nel piccolo ma poco nel grande.

Forse in questo c’è anche il tema principe del professionismo, che un po’ si fatica ad accettare. Si chiamano mercenari assai in fretta coloro che badano al successo, si chiamano arrivisti quelli che vogliono emergere a prescindere dalle maglie indossate. Si maledicono gli individualisti, o quelli che non mostrano riverenza per i colori. Si preferiscono le bandiere. Ma il professionismo è nato proprio per contrastare l’idea familiare del lavoro, per aprirla ad una scala di valori maggiore. Riuscire a dire ad un giocatore che non entrerà in campo perché non è in condizione, senza il timore di bocciarlo, di sbarrargli la strada, di ferirlo, è il motivo principe per cui esistono i lauti stipendi, i bonus, l’ambizione, la concorrenza, il successo e la controparte del fallimento. Il fine è lavorare assieme senza la necessità di ricorrere a meccanismi che ci riportino al legame padre-figlio.

La consacrazione di Sarri passa per questo collo di bottiglia. Se passa lui, passiamo anche noi. Altrimenti rimarrà una storia interessante, eppure non sognante.

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